Del dialetto napoletano - Ferdinando Galliani (1789)/Origine e varia fortuna del dialetto napoletano

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ORIGINE, E VARIA FORTUNA DEL DIALETTO NAPOLETANO.

S Olo le menti superficiali possono persuadersi, che quella lingua latina, che a noi han tramandata le immortali opere de’ Ciceroni, de' Virgilj, de' Livj, degli Orazj, e di altri, sia stata la generale, e sola lingua di tutto l'Impero Romano, o dell’Italia almeno, fiorendo quella Repubblica, e quel Principato. Chiunque medita, vede per contrario, che la lingua di quegli Scrittori altra non è, che una lingua, che incominciata a scriversi per intelligenza del solo popolo di Roma da’ Plauti, e da’ Terenzj, attuò mutandoli a poco a poco, e divenne una lingua cultissima, oggetto de’ maggiori studj, e delle più serie applicazioni de’ Romani, nella quale si perorò al popolo, si scrissero le leggi, si fece ogni atto pubblico, si composero i versi; che quella lingua fu piuttosto scritta, che parlata; e che per apprendere a scriverla, ed a parlarla sola da certa classe d’uomini, ed in [p. 37 càgna] certe occasioni, si consumava dalla gente culta molto tempo sotto la cura di celebri grammatici, che l’insegnavano. Ma intanto non solo nelle lontane, e di fresco soggiogate provincie, ma nell’Italia stessa era in parte diverso il linguaggio naturale de’ popoli succhiato col latte. Le regioni, che ora formano il Regno di Puglia, malamente detto di Napoli, erano state abitate da popoli Aborigeni, quali furono i Lestrigoni, i Lucani, ed i Sabini. Qual linguaggio avessero essi, è ignoto; ma verisimilmente come erano popoli venuti per le vie dal Settentrione, e sempre per terra senza traversar mare, a popolar l’Italia, traevano il lor linguaggio da quelle regioni. Occuparon i Sabini gli Abbruzzi, e il Principato Ultra fino a Venosa, mentre i Lucani occuparono il Principato Ultra, e la Basilicata, e qualche parte della Calabria Citeriore, e i Lestrigoni la terra di Lavoro. Sopravvennero per mare dall’Oriente gli Etrusci, che occupato il mezzo dell’Italia s’andarono poi distendendo, e dilatando fino alla Campania, ed in qualche altra nostra regione. Ma grande, e distesa più di tutti fu la dominazion de’ Greci tra noi, giacché non solo tutte le due Puglie, e piana, e petrosa, il Principato d’Otranto, e le Calabrie, ma le marine intere della Lucania, e della Campania furono ingombrate da celebri, e potentissime colonie loro. Che il linguaggio degli Etrusci contenesse molto di Samaritano, o sia Tirio, sembra cosa ormai messa in chiaro. Il Greco poi, che tra noi parlossi, ci è noto e dalle ifcrizioni, e dalle medaglie, e in fine dagli autori di [p. 38 càgna]veneranda antichità, che tacquero tra noi, e che ci son pervenuti.

Ecco lo stato de’ linguaggi di quelli popoli, quando piegarono il collo non diremo al giogo, ma ad una disegual società co’ Romani. Riempiuti di colonie di essi, dovette farsi un misto, ed un mescuglio di quelle quattro o cinque sorti di linguaggi. Orazio ci ha conservato, che ai Canosini davasi per scherno il soprannome di bilingues per lo miscuglio de’ due linguaggi Greco e Latino, che facevano nel parare. Egli stesso, quantunque di famiglia originariamente Romana, ebbe bisogno di studiar sotto un illustre grammatico Beneventano la culta lingua Latina, e dirozzarla da quella mistura di Sannitico, e di Greco, che insiem col latte avea succhiata. L’esistenza d’un linguaggio diversissimo dal Latino tra gli Osci fino ai più bassi tempi della Republica è indubitabile per la testimonianza degli scrittori, e per l’avanzo di qualche iscrizione Campana, le quali malgrado la difficoltà di leggerle, bastano ad indicarci la somma diversità e ne’ suoni, e nelle voci.

A quella prima, e indubitata dimostrazione della varietà, che han dovuta avere anche nell’età di Augusto i dialetti nostri dal dotto Latino, aggiungasi ora l’altra non men certa, che della stessa lingua Latina solo una piccola parte è a noi pervenuta in quello scarse, e sfrantumate opere di scrittori, che dalle ingiurie non del tempo divoratore, ma dello zelo religioso (attento a distrugger in essi le tracce del paganesimo, e delle empie filofofie) sonosi potute salvare, e giunger a noi. Sono quelle [p. 39 càgna]opere quasi tutte di soggetto eroico, e sublime, ed è ben noto che in sì fatto genere di produzioni pochissima parte del comune linguaggio si suol contenere. Apransi i Lessici: osservassi, che quali un terzo delle parole latine non è pervenuto a noi, se non che per fortunato incontro in un sol passo di scrittore antico, e moltissime neppur così, ma perché trovate nè frammenti restatici di Varrone, di Festo, e d’altri grammatici. Se un sol foglio di più se ne fosse smarrito, ignoreremmo quelle voci. Ogni giorno col disotterrarsi nuove iscrizioni s’incontran voci nuove. Se avverrà, che in qualche biblioteca s’incontrino i frammenti perduti de’ suddetti, a di altri grammatici, nuove voci latine acquisieremo. Or nella ignoranza, in cui siamo della intiera lingua Latina chi sa quante voci, di cui ci lambicchiamo ora il cervello a trovar l’etimologia, se la sapessimo tutta, ci accorgeremmo esser pure e prette latine? Si tormentò stranamente il Menagio a trar cogli argani la voce alfana da equus, e dette luogo a que’ graziosi versi fatti contro di lui.

Alfana vient d’equus sans doute:
Mais il faut convenir aussi,
Qu’en venant de là jusqu’icy
Il a bien changè sur la route.

Quanto più saggio sarebbe stato per lui il dire, che sorse in qualche dialetto antico Italiano fuvvi la voce Alfana, come fuvvi l’altra Caballus, per dinotar lo siesso che Equus!

Ma vi è dippiù. Errore sarebbe il credere, che i Romani pronunziassero le voci della lor lingua per appunto in quel modo, che la loro [p. 40 càgna]ortografia sembra indicare. La varietà grandissima tra l’ortografia, con cui sono scritti i frammenti d’Ennio, Lucilio, Pacuvio, e quella, con cui troviamo scritto Orazio, Virgilio Lucano; la varietà tralle ortografie delle più antiche iscrizioni, e delle posteriori; la differenza infine, che si scorge nelle lettere, allorchè o un nome latino nelle opere degli scrittori Greci, o un Greco trapassa ne’ Latini, tutto infine ci indicherà, che molte lettere finali, e principalmente l’s, e l’m si scrisdero, ma si elidevano nel parlare. Molti dittonghi scritti sciolti si pronunziavano legati. Si scrisse aurum, e si pronunziò orum; si scrisse plaustrum, ma si pronunziò plostrum; si scrisse auricula, e si pronunziò oricula; si scrisse cautes, ma si pronunziò cates: e questa pronunzia in fatti si è conservata fino a noi, che diciamo oro, orecchia, cote. Di qualche lettera si variò il suono; si scrisse quoque, si pronunziò coque; si scrisse vesuvius, si pronunziò vesvius, e vesbius; si scrisse Capua, si pronunziò Campa. Fu infine così rimarchevole la differenza tralla scrittura e la pronunzia, che all’Imperator Claudio venne in pensiere d’aggiunger tre nuove lettere all’ortografia per far, che lo scritto meglio corrispondesse al linguaggio, e delle tre quella, che distingueva la v consonante dall’u, vocale fu trovata così ragionevole, che tutte le ortografie moderne l’hanno, adottata, ancorché non abbian imitata quella figura F, che Claudio avea imaginata, ma siensi contentati di aggiunger una gamba alla v consonante, e scriver u. Insomma noî siam per dire, che se fosse possibile far alzar il capo dalla tomba ad un antico uom del [p. 41 càgna] volgo dell’età d’Augusto, e farlo parlare, noi resteremmo ben sorpresi di sentirlo parlare assai più Italiano, che non immaginiamo.

L’origine dunque nel dialetto tiene, così come quella di tutte le moderne lingue, la sua fonte ascosa tralle tenebre di quella rimota antichità.

Accorderemo facilmente però, che da Silla ultimo soggiogatore di quelle regioni fino a Teodorico per sei secoli intieri, non essendovi stato nuovo arrivo di estranie genti, ma un perpetuo dominio della stessa nazione, saranno andate indebolendosi sempre, e disperdendosi le varietà de’ linguaggi, accostandosi tutti a quel Latino, che la nazion signoreggiante si facea pregio di unicamente scrivere, e ben parlare. Teodorico colla sua picciola armata de’ Goti potè piuttosto signoreggiar l’Italia, che non mutarne la lingua, e i costumi, e come la dominazione de’ Tedeschi tra noi dal 1707. fino al 1734. nè di veruna parola Tedesca arricchì il nostro linguaggio, nè in altra lo variò, così neppure avran potuto i Goti da Teodorico fino a Teja far sensibile mutazione nel linguaggio delle nostre regioni. Maggiore ne fecero certamente i Longobardi da Alboino in poi, sì perchè il loro dominio fu lungo di molto, sì perchè naturalizzaronsi in certo modo con noi, e divennero nostri intieramente.

Ma la mutazione, che questi popoli produssero alla nostra Latina lingua non fu già principalmente quella di trasmischiarvi voci della loro, ma consistette quasi tutta nello storpiamento, e corruzion, che per ignoranza, e per [p. 42 càgna]

la somma difficoltà incontrata ad apprenderla, causarono in ciascuna parola.

A niuna cosa meglio potremmo comparare lo sconcio causato neL Latino da’Barbari, quanto alla lingua Franca parlata da’ Turchi oggi in tutte le Scale del Levante. Analiziamola un poco, e vedasi se andiam lontani dal vero. Che cosa è la lingua Franca? È una superficiale nozione di termini Italiani che gli Arabi, e i Turchi fanno senza alcuna conoscenza di grammatica, e per pura pratica adoperano, quanto basti loro a farli alla meglio capire. Il Levantino giunge per pratica ad apprendere l’infinito di qualche verbo nostro, come farebbe il verbo stare: ma senza grammatica, e senza sludio, e niente aiutato dall’imitazione della sua naturale, e materna lingua ignora la: conjugazione, sicchè di quella sola voce si serve a far tutto il verbo, e in vece di saper dire io sto, tu stai, quello stà, noi stiamo, &c. va dicendo e ripetendo sempre io stara, tu stara, quello stara, noi stara, voi stara &c. Così fa i modi e i tempi, e coll’ajuto degli ausiliari esce come meglio può d’intrigo. Gli basta essersi fatto intendere, Quello perappunto avvenne del Latino in bocca aì Longobardi. Giungeva il Longobardo per esempio ad apprendere la voce fœmina: ma quella nazione feroce, e nemica delle lettere sdegnava darli la pena di apprendere le variazioni della declinazione nel genitivo, e nell’accusativo, e dir fœminæ, fœminam, e nel plurale fœminarum, fœminas, fœminis. Andava dicendo sempre femina al singolare, femine al plurale, ed ecco il nostro [p. 43 càgna] volgare. Poi nel meglio formarsi la nuova lingua l’articolo indicò i casi.

Quasi io stesso avvenne ne’ verbi. Ne ignorarono la conjugazione in gran parte: non distinsero i passivi e dovettero servirsi molto de’ verbi ausiliari; e col supino, e l’infinito fu coniugato quali ogni tempo, ed ogni modo.

In breve (giacché non è nostro istituto l’entrar in quella ricerca) provisi a parlare il Latino sul gusto della lingua Franca senza grammatica, e con poca conoscenza delle inflessioni, e con que’ raddolcimenti o alterazioni di pronunzia, che soprattutto li fanno da chi apprende per abito una lingua non propria, e si vedrà subito, che il Latino si converte in Italiano.

Sicché l’epoca della nascenza del nostro volgare dialetto pare a noi doversi far risalire fin al momento dell’arrivo de’ Longobardi, che fondarono il Ducato Beneventano. Che se a taluno parrà eccessiva tanta antichità, giacché; sei secoli intieri, passano prima, che si trovi in iscritto alcuna memoria del nostro volgar dialetto, lo preghiamo a riflettere, che anche della lingua Franca finora non esiste niente per iscritto, e ciò non impedisce che non siano tre, o quattro secoli, che questa si parla.

L’autorità rispettabile del Muratori, a cui rimandiamo chi vorrà più distesamente sentir ragionar di ciò, e le irrefragabili pruove, che egli adduce, confirmando la nostra opinione, ci dispenserà dall’aggiunger quì altro. Passeremo adunque a dire, che nel secolo decimoterzo era di già formato tutto, e perfezionato il nostro dialetto non men che il culto Italiano a segno, [p. 44 càgna] che le rime, e le prose di Dante Alighieri formano già un testo quasi purissimo di essa, e la mutazione dal 1300. in quà è picciolissima, e solo consistente in qualche parola antiquata ma non già nelle forme grammaticali, che costiruiscono l’essenza delle lingue, le quali dal decimoterzo secolo in poi non si son punto mutate.

Dante Alighieri, grandissimo ingegno, sommo filofofo, uomo di stupendo, ed incredibile sapere sopratutto attendendo l’infelictà del suo secolo, fu a parer nostro il primo legislatore maestro della nostra volgar favella. Egli nel suo libro della volgare eloquenza stabilì i saldi principj, su’ quali la comune lingua dovesse regolarsi. Conobbe con avvedutezza filosofica non doversi prendere per lingua generale veruno de’ dialetti allora correnti, che erano difettosissimi tutti. Volle, che si creasse la lingua de’ dotti, e che fusse legata a regole grammaticali sicure e fisse, e purgata da’ vizj di qualunque idiotismo. Si formò in fatti una lingua quasi nuova, e da niuno abitualmente parlata; ed è poi nel corso di quattro secoli avvenuto, che questa lingua studiata, e culta si è cominciata abitualmente a parlare da tutti gl’Italiani della più polita classe, ed è divenuta loro quasi naturale, e se non succhiata col latte della balia, almeno appresa dagli stessi genitori fin da’ primi vagiti.

Vero è, che tra tutte le provincie d’Italia quella, che più sollecitamente s’appropriò la lingua generale, e la fece sua, fu la Toscana, e qualche parte dello stato della Chiesa, come quelle, che aveano un dialetto men di tutti [p. 45 càgna]discostante dalla lingua prescelta, e formata per esser la generale e comune. Ma sempre è stato, ed è ancora diverso il volgare, e vile dialetto di quelle provincie dalla lingua generale; e quel Toscano goffo, caricato, difettoso, che si legge nelle commedie Toscane, come parlar proprio del loro Ciapo, cioè del contadino Fiorentino, è sempre un dialetto diversissimo dalla lingua Italiana, ed in esso è ridicolo scrivere, e se ne sono astenuti tutti i dotti Italiani, se si eccettui qualche vanerello moderno forense Napoletano.

Per istabilire con filosofico, e saggio squittinio il suo sentimento sulla volgar lingua Dante Alighieri entrò a ricercare ogni dialetto d’Italia in quel suo libro della volgare eloquenza. Del dialetto Toscano, e del Romano parlò con altissimo disprezzo; ma è rimarchevole, che delle parole, che dice incontrarsi in essi, e che egli rimprovera ai suoi concittadini, e ai Romani, molte (e certamente per effetto della creazione della lingua culta) sono state abbandonate. I Fiorentini non dicono più introque, nè i Pisani andomio, nè i Lucchesi ingassaria, nè gli Aretini ovelle, nè i Romani dicono mezure quintodeci, nè i Marchegiani chignamente scatesciate. Anzi neppur si sa che volessero significar quelle voci rimproverate ai suddetti dialetti da Dante, e sorge sospetto che siano forse state da’ copisti alterate.

Ecco come questo insigne poeta, e filosofo parla indi del dialetto Pugliese, che dicevasi anche Siciliano, perchè parlossi nella corte de’ Re di Sicilia Federico, e Manfredi. [p. 46 càgna]

„ De lo Idioma Siciliano, e Pugliese.

Cap. XII.

„ De i crivellatti (per modo, di dire) vulgari d’Italia, facendo comparazione tra quelli, che nel crivello sono rimasi, brievemente scegliamo il più onorevole di essi. E primieramente esaminiamo lo ingegno circa il Siciliano, percioché pare che il volgare Siciliano abbia assunto la fama sopra gli altri, con ciò sia che tutti i poemi, che fanno gl’Italiani, si chiamino in Siciliano. E con ciò sia che troviamo molti dottori di costà aver gravemente cantato, come in quelle canzoni.

„ Ancor che l’Aigua per lo foco lassi.
„ Amor che longamente m’hai menato,

„ Ma questa fama de la terra di Sicilia, se dirittamente risguardiamo, appare, che solamente per opprobrio de’ Principi Italiani sia rimasa; i quali non con modo eroico, ma con plebeo segueno la superbia. Ma quelli illustri Eroi Federico Cesare, e il ben nato suo figliuolo Manfredi dimostrando la nobiltà, e direttezza della sua forma, mentre che la fortuna gli fu favorevole, seguirono le cose umane, e le bestiali sdegnarono. Il perché coloro, che erano di alto cuore, e di grazie dotati, si sforzavano di aderirsi alla maestà di sì gran Principi; talché in quel tempo, tutto quello, che gli eccellenti Italiani componevano, nella Corte di sì gran Re primieramente usciva. E perchè il loro seggio regale era in Sicilia, è avvenuto, che tutto [p. 47 càgna]quello, che i nostri predecessori composero in vulgare, si chiama Siciliano, il che ritenemo ancora noi; & i poderi nostri non lo potranno mutare. Racha, Racha: che suona ora la tromba de l’ultimo Federico, che il sonaglio del secondo Carlo, che i corni di Giovanni, e di Azzo Marchesi potenti? che le tibie degli altri Magnati? se non, venite, Carnesici, venite altriplici, venite settatori di avarizia. Ma meglio tornare al proposito, che il parlare indarno. Or dicemo, che se vogliamo pigliare il volgare Siciliano, cioè quello, che viene dai mediocri paesani, da la bocca de’ quali è da cavare il giudizio, appare, che ’l non sia degno di essere preposto agli altri; perciò che ’l non si proferisce senza qualche tempo, come è in,

„ Tragemi deste focora se t’este a bolontate.

„ Se questo poi non vogliamo pigliare, ma quello che esce dalla bocca de’ principali Siciliani, come nelle preallegate Canzoni si può vedere, non è in nulla differente da quello che è laudabililsimo, come di sotto dimostreremo. I Pugliesi poi o vero per la acerbità loro, o vero per la propinquità dei suoi vicini, fanno brutti barbarismi, e dicono,

„ Volzera che chiangesse lo quatraro.

„ Ma quantùnque comunemente i paesani Pugliesi parlino bruttamente, alcuni però eccellenti tra loro, hanno politamente parlato, e posto ne le loro canzoni vocaboli molto cortigiani, come manifestamente appare a chi i loro scritti considera, come è,

„ Madonna, dir viglio. Et [p. 48 càgna]
„ Per fino amore vò sì lietamente.

„Il perchè a quelli, che noteranno ciò, che si è detto di sopra, dee essere manifesto, che nè il Siciliano, nè il Pugliese è quel volgare che in Italia è bellissimo, conciosiachè abbiamo mostrato, che gli eloquenti nativi di quel paese siano da esso partiti.„

Su questo luogo dell’Alighieri rifletteremo primieramente, che sebbene egli escluse il Pugliese, altrimenti detto Siciliano, dal primato, come ne escluse ogni altro particolare dialetto, confessò però il concetto grande, in cui era quello allora. Nè di ciò ci maravigliamo, giacchè la lingua Italiana culta cominciata ad usarsi, da’ poeti prima di Dante, e da lui promossa a maggior perfezione si discostava molto meno, dal nostro volgar dialetto, che non (e ne discosta oggi quella lingua, che gli Accademici della Crusca hanno canonizzata, come di quì a poco dimostreremo.

Rifletteremo in secondo luogo, che delle tre parole rimproverate come goffe ai Pugliesi, abbiamo certamente la voce chiagnesse, ed abbiamo anche l’altra quatraro; ma volzera è una voce, che affatto non abbiamo, e verisimilmente non abbiam mai avuta, onde o deve dirsi alterata da’ copisti, o, come è più facile, Dante avendo poca conoscenza de’ nostri idiotismi la credette per errore nostra.

Rifletteremo in terzo luogo, essere stato saggio accorgimento suo lo stabilir per legge che niun particolar dialetto dovesse innalzarsi all’onore di lingua generale, poichè tutti sono sempre pieni di quelle goffaggini, anomalie, errori grammaticali, solecismi, che il volgo [p. 49 càgna]commmette: ma dovesse esser la lingua generale, che perciò egli chiama il Volgare lllustre Aulico Cardinale Cortigiano, se non una lingua morta, almeno una lingua sempre scelta, purgata, e fissa. Non è dispreggio adunque del nostro dialetto, se non ha l’onor di lingua generale, giacche siffatto onore neppure al Toscano compete. Suo dispreggio in oggi è lo scodarsi molto dall’Italiano comune, il che non è avvenuto già, perchè il nostro Pugliese da’ tempi di Dante in quà siesi molto alterato, ma è avvenuto, perchè agli scrittori Toscani, che ci superarono nello zelo di scriver in volgare, ed indi ai Signori Accademici della Crusca è piaciuto risecare dalla lingua comune moltissime voci, e moltissime inflessioni di pronunzia, che ai tempi di Dante erano usate e da’ nostri, e da’ Toscani (che incontransi in quegli stessi scrittori padri della lingua da essi scelti per legislatori), e lasciarvi soltanto quelle parole, e quelle inflessioni, che s’accodavano al dialetto Toscano. Con questa destrezza, e, se ci è lecito il dirlo con un poco di soverchieria avvenne, che gl’idiotismi delle Toscane provincie divennero la lingua, e il nostro se ne trovò distante assai, e sbandito.

Ora continuando la storia del nostro dialetto, veniamo a dire, che fortunatamente son pervenuti fino a noi alcuni frammenti de’ Diurnali di Matteo Spinello da Giovenazzo per opera di Gio: Bernardino Tafuri comunicati al Muratori, che gli pubblicò la prima volta nella sua raccolta degli Scrittori delle cose d’Italia al tom. VII. pag. 1064.

Questo scrittore è indubitatamente il primo, [p. 50 càgna] ed il più ántico, che abbia scritto il volgare, tale quale si parlava, giacché tutti gli altri prosatori scelti per Testi dagli Accademici della Crusca, come sono le lettere di Guittone d’Arezzo, il Tesoretto di Brunetto Latini, e tanti altri prosatori per lo più di volgarizzamenti né sono tanto antichi, né scrissero quel volgare, che si parlava, ma piuttosto una lingua studiata, e dotta, e piena di costruzioni latinizzanti.

I Diurnali di Matteo Spinello ci fanno conoscere primieramente, che in Giovinazzo, e nella Puglia parlossi allora quel dialetto, che oggi è passato alla capitale, e dal quale i Pugliesi si sono ora alquanto scostati. In fatti questi Diurnali sono in Napoletano purissimo, ed è mirabile, che in tanti secoli abbia il dialetto nostro sofferta così poca mutazione, che è quasi impercettibile.

Per maggior soddisfazione de’ nostri Lettori inseriremo qui due lunghi, e curiosi squarci di quella preziosa Cronica, che meglio daranno idea del nostro linguaggio d’allora. La sola lettura di essi mostrando la naturalezza, e la facilità dello stile semplice, e niente ricercato, sarà pruova, che lo Spinello scrisse per appunto come parlava.

All’anno 1253. in Luglio trovandosi lo scrittore venuto da Barletta a Napoli a veder il Papa, e la rientrata in Regno de’ Signori di parte Guelfa, de’ quali era Capo Messer Ruggiero Sanseverino, siegue a dire [1]. [p. 51 càgna] „ Me vene a proposito di notare per una delle gran cose successe in vita mia lo fatto de quisto Messer Rugiero de Sanseverino, come me lo contaje[2] Donatielio di Stasio da Matera servitore suo. Me disse, che quando so la rotta de Casa Sanseverino allo Chiano de Canosa, Aimario de Sanseverino cercaje de salvarse, & fugie in verso Bisceglia per trovare qualche vasciello de mare, per ascirsene da Regno. Et se arricordaje di quisto Rugiero, che era piccirillo di nove anni; & se voltaje a Donatielio, che venia con isso, & le disse: A me abbastano quisti dui compagni: va donatielio, & forzati di [p. 52 càgna]salvare quillo figliulo. Et Donatiello se voltaje a scapizzacollo[3] & arrivaje a Venosa alle otto ore, & parlaje a lo Castellano; & a quillo punto proprio pigliaje lo figliulo, & fino a quaranta Augustali, & un poco de certa altra moneta, & uscio dalla Porta fauza, senza che lo sapesse nullo de li compagne; & mutaje subito li vestiti a lo figliulo, & ad isso, & con un cavallo de vettura con un sacco di amandole sopra pigliaro la via larga, allontanandose sempre da dove potea essere canosciuto. Et in cinque jorni arrivaro alla Valle Beneventana a Gesualdo, dove slava Mess. Dolso de Gesualdo Zio carnale di quillo figliulo; & come lo vidde, disse a Donatiello: Vatte con Dio: subito levamillo de la Casa; che non voglio perdere la robba mia per Casa Sanseverino. Et Donatiello se avviaje Tubito per portarlo a Celano, dove era la Contessa Maria Polisena sorore de lo ditto Mess. Aimario de Sanseverino; [p. 53 càgna] & facea poco viaggio lo forno per non stracquare lo figliulo. Et come se facea notte, lo poneva sopra lo Cavallo. Et come so a la Taverna de Morconente [4], venne ad alloggiare l’Arciprete de Benevento, e sempre tenne mente, quando lo figliulo mangiava alla tavola delli famigli, che parea, che lo sfidato; & mangiava assai delicato; & con tutto, che andava con vestiti tristi, & stracciati, parea sempre, che lo figliulo mostrasse gentilità. Et domandaje a Donatiello, che l’era quillo figliulo, & Donatiello respose, che l’era figlio. Et l’Arciprete rispose: Non t’assomiglia niente. Et esso replicò: Forze moglierema me avarà gabbato. Et poi, le fece granne interrogazioni; & quando andaje a la camera a dormire, intese Donatielio che l’Arciprete tra se parlava di quisto figliulo. Et Donatiello appe paura, che non lo facesso pigliare. Et così a Dio, & alla ventura entraje nella Camera, & se li inginocchiaje a pede a lo letto, dove stava corcato l’Arciprete, & le disse in confesse tutto lo fatto, e pregajelo per amor di Dio, che volesse ponere in salvo quillo povero figliulo. L’Arciprete se disse: Non dicere niente a nullo chiù, e stà di buono, animo. Et lo fece ponere sopra lo carriaggio, & venne isso a la via de Celano, & lo appresentaje salvo alla detta Contessa, & così scappaje. Et quando la Contessa lo vedde così [p. 54 càgna]stracciato, scappaje a chiagnere, cha lo havea saputo otto jorni innante de la rotta; & lo fece recreare, & ponere subito in ordine. Et perchè era una sagace femina, lo mandò subito con quattordici cavalli a trovare lo Papa, perchè Casa Sanseverino era stata strutta per tenere le parte de la Santa Ecclesia. Et nce lo mandate assai raccomandato, & lo Papa ne haveva assai piatate & ordinaje, che se dessero mille Fiorini lo anno a Donatiello per lo governo suo. Poi da là a dui anni morì la Contessa di Celano, & lassaje ventiquattro milia Fiorini allo detto Mess. Rugiero. Et poi lo Papa dui anni innante, che morisse l’Imperatore Federico, li dette per mogliere la Sorore del Conte di Fiesco; & allora le dette mille onze d’oro per subvenzione e per mantenere li forasciti di Napoli, & de lo Regno, che tutti fecero capo a Mess. Rugiero, che era fatto uno bello giovane, e despuosto. E tutto quello, come l’aggio scritto, me l’avea contato Donatiello de Stasio de Matera, che a lo presente stà con lo detto Mess. Rugiero de Sanseverino.“

Soggiungeremo a questo curioso passo un’altro tratto dall’anno 1258.

„ La notte de li 25. di Marzo a Barletta, nce intravenne uno grande caso. Fu trovato da li frati de una Zitella[5] così bella, [p. 55 càgna]quanto sia in tutta Barletta, Mess. Amelio, de Molisio Cameriere de Re. Manfredo, che stava a lo lietto con chella Zitella, vacancìa [6]; & fo retenuto; & a chella ora chiamaro lo justitiero, & so portato presone. Et la mattina venente lo patre, e li frati jero a fare querela a lo Rè & lo Rè ordenaje, che Mess. Amelio se pigliasse per mogliere la Zitella: Et Mess. Amelio mandaje a farelo sapere a lo Conte de Molisio che l’era Zio; & lo Conte li mandaje a dicere, che per nulla manera la pigliasse. Et Mess. Amelio se contentaje de darele ducento onze de dote, & altretante ne le pagava lo Сonte. Et lo patre, & li frati de la Zitella se ne sariano contentati, perchè erano de li chiù poveri, & bascia conditione de tutta Barletta. Ma lo Rè disse, cha non volea fare perdere la ventura a chella Zitella, che per la bellezza soa se l’havea procacciata. Et così Mess. Amelio per non stare chiù presone, poichè vidde lo anino deliberato de lo Rè, se la sposaje; & lo Rè fece fare la festa, & disse a Mess. Amelio, che era così buon Cavaliero mo, commo prima; & cha le femmene songo sacchi; & ca tutti li figli, che nasceno per amore, riescono homini grandi. Et li donaje Alvarone in Capitanata. Ma con tutto questo se disse, che lo Conte de [p. 56 càgna]Moliso, ne stette forte corrucciato. Et lo Rè per chisto atto giustifico, ne fò assai ben voluto, & massimamente da le femmene. Et da l’ora innante tutti li Cortigiani de lo Rè tennero la brachetta legata a sette nodeche. „

Da questi saggi può argomentarli quanto farebbe da desiderarsi, che si disotterrasse dal fondo di qualche biblioteca alcun manuscritto meno danneggiato, e manchevole di cosi prezioso monumento. Intanto nè il Muratori, nè venia altro erudito ha messo. in dubbio d’esser quella la più antica cronica Italiana, e forse la più antica prosa.

Or prima di passar innanzi a continuar la storia del nostro dialetto ci sia lecito il dire, che sebbene l’averlo noi asserito come il primogenito, e il più antico tragli Italiani sia cosa tanto chiara per se stessa e tanto evidente, che da niuno che ha fior di senno dovrebbe esserci contrattata, pure dubitiamo tanto della generale prevenzione contraria al nostro dialetto, in cui molti vivono, che non vogliamo in tutto trapassarlo senza addurne alcuna pruova. Ed essendo l’impresa facile, solo ci contenteremo accennarne le principali.

Niuna cosa è più sicura quanto, che essendosi tutta la lingua moderna Italiana generata dalla corruzione dell’antica Latina, quel dialetto sia da tenersi per il più antico, che si osserverà di scostarsi meno dalla sua madre lingua sia per la maggior quantità di voci, che ne ritenga, sia per la minor alterazione nella inflessione, a pronunzia di quelle, che dar latino son derivate, e che incontrandoli egualmente nel [p. 57 càgna]Napoletano, e nel Toscano, veggonsi nel Toscano discostarsi più dalla loro originaria voce. Perciocché essendo natural cosa, e costante, che tutte le alterazioni vadansi gradatamente e quasi impercettibilmente facendo, quanto è minore la corruzione, tanto indubitatamente ha da esser maggiore l’antichità. Or chi non sente co’ suoi stessi orecchi, che le parole Napoletane chisto e chillo si scostano meno delle Latine iste, e ille, che non se ne scostano le Toscane questi e quegli? Dunque indubitatamente ha dovuto prima dirsi chisto, chillo (che secondo l’ortografia di tre o quattro secoli fa trovasi scritto quisto, quillo), e poi cresciuta l’alterazione si è venuto a dir questi, quegli. Chi non vede, che il nostro verbo Napoletano dicere non ha mutazione dal Latino, come lo ha il Toscano dire? Chi negherà, che le nostre voci patre, matre, frate, sore, nepote, consobrino suonano assai più il Latino, che non le Toscane padre, madre, fratello, sorella, nipote, cugino. Noi diciamo socra quella, che i Toscani dicono suocera; quanto è la nostra inflessione più vicina alla latina socrus! Faccio, saccio, aggio s’accodano alle latine facio, sapio, habeo assai più, che non le Toscane voci fo, so, ho. Noi diciamo simmo i Toscani dicono siamo; il Latino è simus. Diciamo tene, vene, convene, accodandoci al Latino tenet, venit, convenit, e non già tiene, viene, conviene. Diciamo fele, mele, come i Latini fel, mel, e non diciamo, come i Toscani, fiele, miele. Diciamo bona, sona, tona conservando in tutto la pronunzia antica Latina, e non alterandola, come i Toscani, in buona, suona, tuona. Diciamo [p. 58 càgna]ditto, astritto &c. come i Latini dictus, strictus, mentre i Toscani dicono detto, stretto &c. Anderemmo all’infinito a voler enumerare tutte le parole noftre, che conservano inflessione più accostante alla Latina.

Egualmente abbiam conservati sciolti alcuni dittonghi, che i Toscani han ristretti ad una vocale. Diciamo laudare, e non lodare, fraudare, e non frodare, ed in tal guisa conserviamo più il Latinismo.

In fine della continua permutazione fatta prima da’ Greci, indi da’ Latini; e finalmente da noi tralla b, e la v vi sono tanti esempj nelle iscrizioni latine a cominciar fin dal quarto secolo, che ogni uomo leggiermente iniziato in questi studj ci dispenserà dall’addurne lunghe pruove. Ci basterà rimandare i nostri lettori alla Dissertazione XXXIX. dell origine della lingua Italiana del Muratori, che rapporta l’equivoco curioso preso dall’Andrea Alciato sulla parola BIBO, che egli non seppe riconoscere essere la parola latina VIVO in una iscrizione esistente in Milano. Il Muratori avverte che quella mutazion di lettere provveniva dal pronunziarsi già alcune parole secondo il costume Napoletano. E pure quell’iscrizione, ed altre moltissime simili, che si sono incontrate e sulle lapidi e su’ vetri delle Catecombe non sono posteriori al V. secolo.

Che se alla pruova in favor dell antichità del nostro dialetto nascente dalla maggior conformità colla pronunzia latina, si aggiungerà l’altra di non minor peso della maggior quantità di parole latine tra noi conservate, che nel nostro Vocabolario si osserveranno, crescerà la [p. 59 càgna] forza della dimostrazione d’essere questo come il meno corrotto, così il più antico de’ dialetti.

Ma la più forte pruova, a parer nostro, si trarrà dalla grandissima quantità di parole, che nel nascere dalla nostra lingua si usarono da que’ scrittori d’ogni provincia d’Italia, che sono stati canonizzati per testi della lingua generale, e che pian piano, e destramente espulse da’ Toscani (che miravano a convertir il loro dialetto in lingua generale) sono restate soltanto tra noi.

Il tesser un catalogo di tutte sarebbe immenso, e ristucchevole lavoro; ma basti darne un saggio in un breve catalogo di un centinaio di voci usate nelle opere di Fra Guittone d’Arezzo, di Ser Brunetto Latini, del Volgarizzamento della Tavola de’ Gradi di S. Gregorio, nelle Rime antiche publicate dall’Allacci, ed in altri antichi Scrittori.


Abbisognoso. incontrasi nel Volgarizzamento de’ Gradi di S. Girolamo.

Accattare, in senso di comprare. nelle novelle antiche p. 129.: Maestro Alberto gli l’avea accattato.

Affriggere, nelle novelle antiche p. 65.

Aitate. per etade. in Fra Guittone d ’Arezzo lett. 2.

Aletto. per eletto. in Dante da Majano Rime ant. p; 72; Aletto Imperatore.

Alifante. nelle Lettere di Fra Guittone.

Angostiava. nello stesso.

Assempio. nel Volg. de’ Gradi di S. Gir.

Astutare. per smorzare. in Tommaso de Saxo di Messina Racc. dell’Allacci c. 527. [p. 60 càgna]

Che non se pò astutare
Così senza ferita uno gran foco.

Aucidere, nelle rime di Ciulo da Canto il più amico de’ poeti Italiani, che al credere dell’Allacci fiorì nei 1190. ed il cui nome egli avrebbe scritto più correttamente chiamandolo Ciulo d’Alcamo, che era la sua, patria.

Auciello. in. Fra Guittone lett. 5.

Autare. per Altare. Francesco de Buti commento sopra. Dante Purg. Sacrificio dell’Autare.

Autezza. in Fra Guittone lett. 6, dove, il dottissimo suo commentatore Mons. Giovanni Bottari, alla nota 149. non isdegnò citar due luoghi, del grazioso poema della Ciucceide di Nicolò Lombardi in confirma, di quelle voci autezza, e auto.

Autro. In Fra Guittone: Apprestagli l’autra.

Auzare. Nello stesso.

Bale. per vale. Ciulo da Camo Rime antiche Cart. 441. Niente non ti bale.

Bascio. In Puciantone Martello canzone 57.

Boglio. per voglio, in Ciulo da Camo.

Botarse. per far voto. In. tutti, gli antichi scrittori, e padri della lingua, nella qual voce si scorge la mutazione della v in b.

Buscia. per bugia. in Folgore da S.Geminiano Racc. dell’ Allacci c. 520.

Frati non’v’abbia mai. nè Monastero :
Lassate predicar ai Frati pazzi
Ch’hanno troppo, buscie, e poco vero.

e nei Volg. della Tav. de’ Gradi de S. Ger.

Campare. per vivere. in Cino da. Pistoja Racc. dell’Allacci. c. 279. [p. 61 càgna]Cangiare. per cambiare. In Bacciarone di Messer Bacone da Pisa.

Cangio. presso lo: stesso. Lo cangio d’essa.

Canoscenza. in Messer Caccia da Castello nel Cod. Vatic: 3214. Cart. 209. Che da di virtù somma canoscenza.

Cià. Gli antichi accorgendosi, che la voce Italiana quà, promunciavasi con una certa forza maggiore, ne mutarono l’ortografia ed alcuni (come Fra Guittone) scrissero Cià, altri scrissero . I moderni Napoletani scrivono ccà. Ma la pronunzia si vede esser stata simile.

Chiano. per piano. in Tommaso de Saxo da Messina.

Chiù. Ciulo da Camo Rim. Antic. c. 411.

Chiù bella donna di me troverai.

Como. per come. in Guido Giudice. Rime. antiche, e in Ciulo da Camo c. 409. Como ti seppe bona la venuta.

Creo. per credo. Pietro delle Vigne cod. Vatic. 3213. E quando io creo posare.

Disciprina. in Fra Guittone.

Ensemora. per. insieme. Fra Jacopone da Todi Rime 33.

Chi ensemora fallisce
Nsemora he da penare.

Faje. per fai. in F. Guittone.

Faite. per fate, che i Napoletani dicono facite, colle stesse lettere de Latini, ma con diversa prosodia, nello stesso Fra. Guittone.

Faglia. in Ciulo da Camo c. 415. Sanza Faglia. Dal Francese Sanz Faulte, che oggi i Toscani dicono senza fallo. [p. 62 càgna]Fenisco. in Folcalchieri de’ Folcalchieri Sanese, che fiorì nel 1200. secondo l'Allacci c. 312.

Ben credo, ch’eo fenisco, e non commengo;
E lo meo male non porria contare.

Fernuto. per finito. in Ciullo da Camo.

Bella da quillo jorno sono fornuto'.

Fragellare. In Fra Guittone.

Freve. per febre. in Fra Jacopone da Todi Rime ant.

Fue. per fu. Usitatissimo da tutti gli antichi scrittori, i quali nella loro ortografia non espressero la j, che si framezzava in questi dittonghi ae, oe, ue. Oggi i Napoletani scrivono fuje, perchè così pronanziano.

Govito. per gomito. Francesco Buti Inf. c. 4.

Grolia. in Fra Guittone.

Impromette. per prometto. in Ciulo da. Camo, c. 415.

Quisto, ben t’imprometto, e sanza faglia.

Introppecare. Racc. dell’Allacci. c. 354.

Però ti prego, che più non c’introppeche.

Inviziare. in Fra Guittone.

Jendo. per andando. in Fra Guittone.

Jere. per eri. in Fra Giordano da Ripalta.

Jodice. in Fra Jacopo Passavanti.

Jodicio · in Franco Sacchietti.

Joja. in senso di piacer frivolo. in Fra Guittone.

Di vane secolare joje.

Jorno. in Ser Vanni d’Arezzo: E le travaglie ch’abbo notte, e jorno. Ed osservarono il Tassoni, il Redi, e il Menagio, che così scrissero questa voce i più antichi poeti [p. 63 càgna] liani, come Ciulo da Camo, Fra Guittone, ed altri.

Jostra. in Franco Sacchetti.

Juramento. in Fra Guittone.

Locco. per sciocco, ignorante. Rim. ant. dell’Allac. c. 141. Locce saresti, e poi t’alletteraro.

Lloco. per quivi. in Fra. Guittone più volte. Nel Tesoretto di Ser Brunetto Latini.

Ci mise li segnali
Ercules il possente
Pèr mostrare alla gente
Che loco sia finata
La Terra, e terminata.

Il Boccaccio nella Pistola Napolet. tralle Prose antiche c. 325. Loco stà Abbate Janni Воссассіо.

Majestro. in Fra Guittone, e in altri autori antichi.

Mogliere. nella. Tav. de Gradi di S. Gir., e in altri.

Multiplice. nella: Storia di Barlaam e Giosafat.

Nabissato. per innabissato. in Meo Abbracciavacca Canz. a c. 77. delle rime antiche.

Nante. per innanti. in Fra Jacop. da. Todi Rime.

Nante che l’uomo se debbia cibare.

Nantiposto. nello stesso. Nantiposto il suo volire.

Negrigente. in Fra Guittone.

Notrice. nelle novelle Antiche.

Obbrigato. nel Volgorizz. de’ Sermoni di S. Agostino.

Patremo, e Patreto, in Ciulo da Camo.

Parejare, in Dante da Majano Rime ant. c. 73. [p. 64 càgna]

Che null’uom me ne pote parejare.

Pejo. in Fra Jacopone da Todi. Ma cento piè hai tu pejo.

Piatoso. in Guido Cavalcanti Sonetti.

Prejo. per pregio. In Mazzeo da Messina Racc. Állacci c. 485.

Preite. per Prete. Noi diciamo Prevete. in Fr. Guittone.

Pubrico. in Fra Guittone.

Quisto. in Cinulo da Camo.

Redutto. nel Petrarca, e in Fra Guittone.

Repentere. in Ciulo da Camo Rime Ant. c. 409.

Guardati bella pur de repentere.

Resposto. in Fra Guittone lett. 2.

Retraire. nello stesso.

Riscita. per riuscita. in Francesco da Barberino.

Dannosia riscita.

Sajetta. in Fra Guittone lett. 2.

Sarraggio. nelle Rime Ant. del Cod. Vatic. 3793.

Sarraggio sempre ver te.

Scanoscente. in Meo Abbracciavacca Rime.

Se la gente villana, e scanoscente.

Scura. nel Volg. della Tav. de’ Gr. di S. Gir.

Semontare: In Fra Guittone lett. 9.

Semmana, in Folgone da. S. Geminiano Rime. Ant.

Il Lunedi per capo de semmana.

Semprice, nel Volg. della Tav, de’ Gr.

Senteno. per sentono. in. Fra Guitt. lett. 3.

Sprendore. nello stesso.

Suoje. nel Volg. della Tav. de’ Gradi. Le suoje membra, e così molte altre volte.

Superbio, in Luigi Pulci Morgante maggiore. [p. 65 càgna] Traduto. in Bindo Bonichi . Racc. Allacc. c. 110.

Trovandomi traduto.

Traire. per trarre. in Fra Guittone.

Triunfo. nello stesso.

Vao . in Giovanni Giudice Rim. Ant. dell'Allac. с. 421.

Vasta. per basta. in Fra Giordano Pred. solalamente vasta un die, ed in Franc. Buti Inf. c. II.

Non vasta esser partiti da costoro.

Veo, nell' Imperator Federico Rime antiche. E veo li sembianti, e nelle rime del Re Enzo suo figlio. Del mio servir non veo.

Vinciuto, in Fra Guitt. l. 10.

Voleno. per vogliono. nella. Tav. de' Gr. di S. Gir.

Volse. per volle. è usitatissimo dal Petrarca, da Fazio degli Uberti, e da tutti gli antichi, ancorchè oggi si riguardi come error di lingua.

. per quà. in Cecco di Mess. Angiolieri, e in Francesco Barberini così trovasi scritto in zà, e in là. Vedasi ciocchè di sopra abbiam detto alla voce cià.


Abbiamo raccolte dal vasto stuolo di tanti scriitori antichi queste voci, non per altra cagione, che per far conoscere quanto erano generali, e spasi in tutta Italia, e da tutti i poeti , e prosatoti adoperati i nostri idiotisi; e non è già che per raccoglier così poche voci avessimo dovuto sudare a crivellare tutte le poesie di coftoro. Del che se taluno ancor dubitasse, potrà disingànnarsene vedendo quanto [p. 66 càgna]frequentemente, e in che gran copia ciascuno di questi antichi le adopera. Diamone un esempio estraendo soltanto quelle, che s’incontrano nelle poche rime varie di sonetti, e canzoni di Dante Alighieri, il quale indubitatamente non visse tra noi.

Usa Dante spesso l’articolo lo in vece d’il, dicendo lo mondo, lo tempio, lo suo piacere, lo core etc. Usa vene, convene, avvene, tene, sostene, per viene, conviene, avviene, tiene, sostiene; criare, criature, homo, core, mastro, saccio, sacciate, faccio, face, facete, aggio, aggiate, ave, fele, vertù, vertuosa, feruta, feruto, conceputo, vestuto, benegna, laudare, provedenza, canoscente, venta, penta, depenta, conducere, dicere, corcare, lassare, inforcare etc. Usa rilucieno, dicieno per rilucano, dicono, mise, impeso per meso, impiccato. Usa infine vego per vedo, assembro per rassomiglio, sta per quessa, appojare per appoggiare, stutare per smorzare, campare in senso di vivere, tu ride per tu ridi, boce per voce, chiama a voi per chiama voi, nullo per niuno, cera per ciera, ed altre insfessioni o parole oggi tutte nostre, e che i Toscani sfuggono di usare.

Bastino questi saggi per quiete dell’anima di que’ nostri concittadini, che si rammaricano e piangono sulla lingua, che parlano. Diasi loro la grata nuova, ch’essi parlano assai miglior Italiano, che per ventura non s’imaginavano. Veggano, che potriano in certo modo anche essi dire fuimus Troes, fummo Italiani. Erano i nostri modi di pronunziare non disdegnati allora, anzi [p. 67 càgna] venerati come i primi, e i più antichi. Se ora non lo sono più,

Peccato è nostro, e non natural cosa.

L’aver noi negletto di scrivere nel nostro dialetto; l’esserci unicamente occupati dal decimoterzo secolo fino al decimosesto o a scrivere in latino, o ad imitare i Toscani, ci ha fatti decadere da quel primato, al quale ne tempi di Dante (come di sopra abbiam rapportato) sembravamo essere i più vicini. Onde venne a verificarsi intieramente ciocchè di noi presaggendo e quasi profetizzando cantò il Petrarca, allorchè disse:

....... Ei Siciliani,
Che furon primi, e quivi eran da sezzo.[7]

Ora continuando la narrazione della varia fortuna del nostro dialetto diremo, che dopo Matteo Spinello non troviamo altro scrittor nostro in esso fino al creduto Giovanni Villani autore della Cronica di Partenope, che arriva fino ai principj del 1382.

Ma chi ci potrebbe perdonare, e quali olocausti, o vittime ci potrebbero espiare agli occhi di molti, se noi trapassassimno, senza rammentarla, la Pistola in lingua Napoletana dell’immortale Giovanni Boccaccio? Tutti i Cruscanti, de’ quali (chỉ il crederia) Napoli ha abbondato più, che Firenze istessa, avran per fermo [p. 68 càgna] mo, che l’onore fatto: da un Boccaccio al nostro dialetto sia tale e tanto, che rassomigli alla favolosa preghiera di S. Gregorio per l’anima del dannato Trajano, e solo suffraghi a liberar dall’abominio il nostro dialetto, ed innalzarlo alle stelle.

Diremo adunque, che il Boccaccio dimorando in Napoli, mentre su di noi regnava Giovanna I. verso l’anno 1349. volle per piacevolezza scrivere a nome di Giannetto di Parise a Francesco de’ Bardi in quel volgar dialetto nostro del quale per effetto del suo lungo soggiorno quà, e di quello, che prima avea fatto in Sicilia; dove andò a studiar la lingua Greca, aveva apprese molte voci, e molte frasi. Ma siccome anche oggi avverrebbe a qualunque Toscano, che dimorando tra noi si volesse mettere a scriver in Napoletano (dialetto tanto difficile, che gli stessi nostri quasi mai non han saputo scrivere correttamente): avvenne, che egli ingannate dalle analogie commise innumerabili piccioli, errori sia nell’inflessione, che dette alle nostre voci caricandola soverchio, sia nell’aver travestite in Napoletano molte voci, e frasi non nostre, o finalmente nell’aver creduto doversi scostar sempre dal suo Toscano anche quando non si doveva. In oltre confuse le pronunzie de’ due dialetti Siciliano, e nostro, e volendo scrivere in caricatura sforzò soverchio i suoni delle parole. Nè si creda, che forse i Napoletani in quel tempo parlassero con quella caricatura, che egli usa in questa lettera, perchè oltre al confronto con altri scritti vicini a quel tempo de’ veri nazionali, ogni piccola pratica, che si abbia degli abbagli, in cui inciampano [p. 69 càgna]anche oggi gli stranieri, se voglion scrivere o parlare in Napoletano, palesa subito quali siano in quella lettera gli errori dello straniero scrittore, e quali le varietà, che veramente in quattro secoli ha potuto soffrire il dialetto. Molto più chiari sono poi per noi moltissimi errori de’ copisti, e forse dell’editore, come avviene, sempre, allorché si copia o si stampa in una lingua ignota.

Noi per venerazione al nome di tanto scrittore, e perchè in se stesso considerato è quello un prezioso monumento per noi, abbiam creduto pregio dell’ opera primieramente rapportarlo tale quale si trova scorrettamente stampato nell’edizione di Firenze, ed in confronto mettere la correzione non solo di tutti gli errori di scrittura,che indubitatamente vi sono scorsi per abbaglio de’ copisti, o dell’editore, ma anche la correzione di tutte quelle caricature di pronunzia, e di lingua, che vi commise il Boccaccio per inespertezza del vero dialetto. Ma lasceremo esistere quelle maniere di dire, e quelle parole non mai state nostre, ma tutte Toscane, che vi si veggono intruse. Avremmo soverchio alterato il Testo, se anche queste avessimo volute correggete. Ben però nelle note le avvertiremo, ed inoltre rischiareremo ciocché per la mutazione de’ tempi, e de’ costumi è divenuto oscuro. Indi per far comprendere quale sia la mutazione e di ortografia, e di lingua, che in questi quattro secoli ha avuta il dialetto, la ridurremo nel Napoletano oggi corrente togliendone qualunque barbarismo, e si vedrà subito quanto diviene chiara, ed intelligibile a ciascuno [p. 70 càgna] una epistola stata finora quasi indiscifrabile agli stessi nostri nazionali.

Ad Francisco delli Barde.

Secondo si legge nell’edizione di Firenze del 1723. per Tartini, e Franchi in 4.

Faccimote adunqua, caro fratiello, a saperi, cha lo primo juorno de sto mese de Deciembro Machinti filiao, e appe uno[8] biello figlio masculo, cha Dio nce lo garde, e li dea[9] bita a tiempo, e a biegli .

    Correzione secondo l’ortografia, e la vera lingua di quel tempo.

Facimote adunqua, caro fratiello, a sapere, cha lo primo juorno de sto mese de Decembro Macchinti filliao e appe uno bello figlio mascolo, cha Dio nce lo guarde, e le dia vita a tiempo, e a bell’arme. E per

[p. 71 càgna]
ni. E per chillo, cha ’nde dice la mammana, cha lo levao[10], nell’ancuccia[11] tutto s’assomiglia allu pate. E par Dio credamolillo; cha ’nde dice lu     chello cha nde dice la mammana, cha lo levao, nell’ancuccia tutto s’assomiglia allo patre. E per Dio credimelo, ca nde dice lo patino, cha la

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capatino, cha la canosce, che d’è bona perrzona. Oh bona Dio, cha ’nde apisse[12] aputo uno Madama [13] la Reina [14] nuostra! Acco festa, cha ’nde faceramo tutti per l’amore suojo! Ah macari nce fossi intando, ch’aspissovo     nasce, che d’è bona perzona. Oh biva Dio, cha nde abesse abuto uno Madama la Reina nostra! Acca festa che nde faceriam tutti per l’amore sujo! Ah macare Dio state nci fossi tando, ch’abissevo abuto chillo
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aputo chillo[15] chiacere in chietta, com’av’io mediemmo! E sacci, cha qualle appe filliato Machinti[16], a cuorpo li compari lie mandaro lo chiu bello puorco, cha bidissovo ingimai, e mandichaosillo tutto; cha ’ncelle puozza, si buoi tu, benire scaja[17], cha schitto     piacere inchietta, com’abb’io medemo! E sacce, cha quando appe filliato Machinti, a cuorpo li compari le mandaro lo chiu bello puorco, cha bedissevo ingimai, e manducaoselo tutto, cha nce le pozza, si buoje su, venire scaja, cha

[p. 74 càgna]

tantillo non ce de mandao. E dappoi [18] arquanti juorni lo facimmo battiggiare, e portavolo la mammana incombogliato in dello [19] Ciprese di Mathinti,

   

to tantillo non ce nde mandao. E dappoi alquanti juorni lo facimmo battiggiare, e portavolo la mammana incombogliato in delo Ciprese di Machinti in

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fu chillo dello[20] ’mbelloso inforrato di varo: non sacco, se te s’arrecorda, qual isso buoglio dicere eo. E Ja. Squarcione portao la tuorcia allumata chiena chiena de carline[21]; e forononci     chillo de Cambelloto inforrato de varo: non saccio se te s’arrecorda da qualisso voglio dicere io.E Ja. Squarcione portao la torcia allumata chiena chiena de carline, e foronci

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compari[22] Jannello Borzaro, Cola Scongiario, Turcillo Parcetano, Franzillo Schioccaprete[23] Serillo Sconzajoco, e Martuccello Orcano perzì; e non faccio quanta delli mellio mellio de Napole. E ghironci in chietta con ipsi[24]     compari Jannello Borsaro, Cola Sconciario, Turcillo Par cetano, Franzillo Schioccaprete, Sarrillo Sconzajoco; e Martuccello Orcano perzì; e non saccio quanta de li mellio mellio de Napole. E ghieronci in chietta con

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Marella Cacciapulce, Carella Saccoti, Zita Cubitoaa, e Rudetola de Puorta nuova, e tutte chille zittelle della chiazza nuostra[25]. E puosoronli nome Antoniello, ad onore de Santo Antuono, cha ’nce lo garde. E s’apissovi beduto quanta bella de Nido, e de Capovana perzì, e delle chiazze bennono a besetare la feta[26], pe cierto ti appevi maravilliato. Bien mi tene, quant’a mene, chiù de ciento creo, cha fossero colle[27]

    ipsi Marella Cacciapulce, Catella Saccori, Zita Cubitosa, e Rudetola de Porta nova, e tutte chelle zitelle de la chiazza nostra. E posoronli nome Antoniello ad onore de Santo Antuono cha nce lo guarde. E si avissovi veduto quanta belle de Nido, e de Capoana perzì, e delle chiazze veneno a besetare la figliata, pe cierto t’appive maravilliato. Bene me tene quant’a mene, chiù de ciento creo, che fossero colle


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zeppe ertavellate, e colle manecangiane[28] chiene de perne, e d’auro mediemmo, cha ’nde sia laudato chillo Deo, cha le creao. Acco stavano bielle! Uno paraviso pruoprio parze chillo juorno la chiazza nuoftra. Quant’a Machinti bona sta, et allerasi molto dello figlio: non pe quanto anco jace allo lietto, come feta cad’è. Apimmote ancora a dicere arcuna cuosa, se chiace a tene[29]. Loco sta Abbate Ja. Boccaccio, corno sai tu: e nin journo, ni notte perzì fa schitto cha scribere. Agiodille dit-     Zeppe ertavellate, e colle manecangiane chiene de perne, e d’oro medemo, cha nde sia laodato chillo Dio, che le creao. Acca stavano belle! Uno paraviso proprio parze chillo juorno la chiazza nostra. Quant’a Machinti bona sta, et allegrase molto de lo figlio; non pe tanto anco jace allo lietto, como figliata cha d’è. Avimmote ancora a dicere arcuna casa, se piace a tene. Loco sta Abbate Ja. Boccaccio como sai tu, e nin juorno nè notte perzì fa schitto cba scrivere. Aggiodillo ditto

[p. 79 càgna]

chisto chiù fiate, et fonmode boluto incagnare co isso buono uomo. Chillo se la ride, e diceme: figlio meo, ba spicciate, ba[30] juoccate alla scuola co li zitelli, cha eo faccio chefsso pe volere adiscere[31]. E chillo, me dice Judice Barillo[32], cha isso sape, quanta lu demone, e chiù cha non seppe[33] Scaccinopole da Surriento. Non saccio pecchene se lo     chiù siate, e sonome volute incagnare co chisso buono uomo. Chillo se la ride e diceme: figlio mio, ba spicciate, ba jocate alla scola co li Zitelli, cha io faccio chesso pe volese adiscere. E chillo, me dice Judice Barillo, cha isso sape quant’a lo demonio, e chiù cha non seppe Scaccinopole de Sorriento. Non saccio pecchene le
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fa chesso; ma pe la[34] Donna da pede rotto pesamende. Non puozzo chiù; ma, male me ’nde sape. Benmi le persone potterà dicere, tune cha ’ncia cheffare a chesto? Dicotillo: fai, ca l’amo quant’a patre: non bolserie in de l’abenisse arcuna cuosa, cha schiacesse ad isso, ned’a mene mediemmo. Se chiace a tene, scribetillo, e raccomandace,     fa chesso; ma pe la Madonna de Pedogrotta pesamende non pozzo chiù: ma male me ’nde sape. Bene le perzone me poterriano dicere tane che ’nci ai che fare a chesto? Dicotillo: sai ca l’amo quant’a patre. Non volseria in de l’abbenisse arcuna cosa, cha spiaccese ad isso, ned’a me medemo. Se piace a tene scrivelillo, e raccomandace se te piace a
[p. 81 càgna]
se te chiace, a nuostro compatre Pietro da Lucanajano, cha llu puozziamo bedere alla buoglia suoia. Bolimmoci scusare, cha ti non potiemo chiù tosto scribere, ch’appimmo a fare una[35] picca de chilio fatto cha faje tune. Bien se te chiace[36], cobille[37] scrivincello, e beamoti insorato alla chiazza     nuostro compare Pietro da Lucagnano, cha llo pozzamo vedere alla voglia soja. Volimmoce scusare cha non te potiemo chiù tosto scrivere, ch’appemo a fare uno poco de chillo fatto, che sai tune. Bene se te piace cosa scrivenccelo, e veammote insorato a la
[p. 82 càgna]
nuostra[38]. Loco stà Zita Bernachia, cha stà trista[39] pe tene. E stà aguardate. In Napole, lo juorno de Sant'Aniello.[40]     chiazza nostra. Loco stà Zita Bernacchia, cha stà trista pe tene. E aguardate. In Napole lo juorno de S. Aniello.
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[41] Jannetta de Parise[42] della Ruoccia[43]. Jannetto de Parise della Rocca.[upper-alpha 1]
[p. 84 càgna]Daremo ora la traduzione di quella memoranda Epistola nel linguaggio, e nell’ortografia corrente.


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A Francisco de li Barde.

Facimmote addonca caro fratiello, a sapere ca lo primo juorno de sto mese de Decembre Machinti figliaje, e appe no bello figlio mascolo, che Dio nce lo guarde, e le dia vita a tiempo, e a bell’anne. E pe chello, che nne dice la mammana, che lo pigliale, nella nfanzia tutto s’assomiglia a lo patre. E pe Diso credimmolo, ca nce dice lo patino, che la canosce, ca è bona persona. Oh biva Dio, [p. 86 càgna]che n’avesse avuto tino Madama la Regina nostra! Acchia festa che nne faciarriamo tutte pe l’ammore sujo! Ah macara Dio stato nce fusse tu tanno, che avarissemo avuto chilloo piacere nchietta, comm’appe io medemmo! E sacce ca quanno appe figliato Machinti, de botta li compari le mannarono lo chiù bello puorco, che bedissevo maie e se lo magnate tutto, ca nce le pozza, si vuoje tu, venire la zella, caschino tantillo con ce ne mannaje. E dopo cierte juorne lo fecemo vattejare, e portajelo la mammana commogliato into a lo Ciprese de Machinti, intp a no chillo de cammellotto nforato de pelle de vario. Non saccio si te l’allecuorde, quale è chillo, che boglio dicere io. E Cianne Squarcione portaje la torcia allummata chiena chiena de carline, e furonce compare Cianniello Borzaro, Cola Sconciario, Turciolo Parcetano, Froncillo Schioccaprete, Sarrillo Sconciajuoco, e Martucciello Orcano; e ghieronce nchietta co issi Marrella Cacciapullece, Catella Saccota, Zita Cubitosa, e Rudetola de Porta Nova, e tutte chelle Zitelle de la chiazza nostra, e le posero nomme Antoniello a onore de Santo Antuono, che nce lo guarde. E si avissevo veduto quanta belle de Nido, e Capuana porzì, e de le chiazze veneno an besetare la figliata pe cierto t’avarrisse maravigliato. Mbè me tene, quant’a mene, chiù de ciento creo ca fossero colle Zeppe Ertavellate, e colle Manecangiane chiene de perne; e d’oro medesemamente, che ne sia laudato chillo Dio, che le criaje. Acchia stavano belle! No Paraviso proprio parze chillo juorno la chiazza [p. 87 càgna] nostra! Quant’a Machinti sta bona; e allegrate assaje de lo figlio; non pe tanto ancora stace a lo lietto, comm’a figliata che d’è. T’avimmo ancora a dicere quacche cosa si piace a tene. Ccà sta Abbate Cianne Boccaccio, commo saie tu, e nè lo juorno, nè la notte porti fa schitto auto, che scrivere. Nce l’aggio ditto chiù vote, e me sò voluto ncagnare co chisso buonomo. Isso se la ride, e me dice figlio mio va spicciate, va joca a la scola co li figliule, ca io faccio chesso pe volè mparare; e lo Jodece Barrile me dice, ca chisso sape chiù de lo demmonio, e chiù ca non seppe Scaccinopole de Sorriento. Non saccio pecchè fà accossì, ma pe la Madonna de Peedegrotta, me ne despiace non puozzo dì chiù: ma male me nne sape. E lo vero, che quacche perzona me potarrà dicere tu che nc’aje che fare a chesso? Mo te là dico. Saje ca l’ammo comm’a patre. Non vorria, che le ntravenesse quacche cosa, che spiacesse a isso, e a me medemo. Si piace a tene, scrivencello; e racomannace, si te piace, a lo compare nuostro Pietro da Lucagnano, che lo pozzammo vedere secunno desidera isso. Scusatence ca non te potremo scrivere prima, ch’ebbemo da fare no poco de chillo fatto, che saie tu. Si t’accorre quacche cosa, scrivencello, e pozzammote vedere nzorato a la chiazza nostra. Ccà sta Zita Vernacchia, che sta trista pe te. E governate. A Napole lo juorno de Sant’Aniello.

De li tuoje Ciannetto de Parise de la Rocca.

[p. 88 càgna] Abbiamo reso quel tributo di gratitudine, di riverenza, che dovevamo, ad un Boccaccio scrivente in Napoletano, ma senza usargli parzialità. Ora ripiglieremo l'interrotto discorso della Cronica di Partenope del nostro Giovanni Villani.

Il Tafuri al Tom. 3. pag. 15. scrisse con così poca esattezza di critica l'articolo di questo scrittore, che ci obbliga a non trapassarlo senza correggerne gli abbagli. Egli credette essere stata scritta questa Cronica verso l'anno 1360., e non avvertì, che al cap. 27. del lib. 1., nel quale questo credulo, e favoloso Cronista fa fondatore il poeta Virgilio di un giuoco di giostra allora assai celebre, che facevasi in una amplissima strada esistente ancor oggi non lontana dal Castello di Capuana, e detta a Carbonara, dice così: Et hebbe principio lo dicto joco dalo menare de li citrangoli, a lo quale da pò successe lo menare de le prete, et pò ad macze; ma stavano col capo coperto con bacinetti, et ermi di coiro. Et de pò più nanci venne al tempo di anni MCCCLXXX., che quilli, chenze jocavano non obstante, che se armavano de tutte arme, infinite ce ne morevano, et è chiamato Caronara, in nel qual loco se solevano gettare le bestie morte e mondecze. Non avvertì parimente al capo quarantesimo del lib.3, nel quale si legge: Perchè innanci, che scompisse uno mese da po della morte de lo Rè Louise, fò morto lo dito Messer Louise, lo quale fo atterrato in ne la Ecclesia de Santa Croce de Napoli de li Ordini de li Minori, et remase de ipso Messere Louise lo spettabile Messere Carole de [p. 89 càgna] Duraczo, che mò è Re de Hyerusalem, et de Sicilia. Non avvertì in fine, che in quelle Croniche non si parla della morte della Regina Giovanna I., che seguì in maggio dell’anno 1382., ma si rapporta la venuta di Luigi d’Angiò in soccorso di lei, che seguì ai principj di quell’anno istesso 1282., anno in cui Carlo III. di Durazzo avera assunto il titolo di Re.

Che diremo poi dell’incredibile contradizione, colla quale, dopo aver detto, che quella Cronica finisce nel 1560., ne fa autore Giovanni Rumbo, detto Villani, che morì nel 1311., secondo appare da una iscrizione sepolcrale, che era nella Chiesa di S. Domenico Maggiore?

Noi incliniamo al sentimenro del P. Agnello Ruggiero di Salerno, e di altri scrittori rapportati dal Toppi, i quali credono autore di quella Cronica un Bartolomeo Caracciolo, o per meglio dire Carafa, Giureconsulto, fondati sull’autorità d’un manoscritto di quella Cronica, nel quale si leggeva: La sopradircta breve informacione tracta da diverse cronache, che faravvi nostro Signore Rè Luise lo vostro fedelissimo vassallo Bartelomeo Caraczolo, dicto Carafa, Cavaliere de Napole. Crediamo adunque, che ignorandosi il vero nome dello scrittore, fu quella Cronica chiamata di Giovanni Villani, giacché l’autore di essa altro non fece, che copiare quanto potè dall’istoria di Giovanni Villani Fiorentino.

Checché siesi del vero nome dello scrittore, quella Cronica, che vide la prima voita la luce delle stampe nel 1526. accompagnata da una [p. 90 càgna]descrizione de’ bagni di Pozzuoli, e d’Ischia; la quale forse è di diverso, e più antico scrittore, certo che lo stile della medesima non è di tanta semplicità, e purità, quanto quella dello Spinello. Il cronista secondo il gusto già cominciato nel suo tempo, forzandosi a parlar con eleganza, e dpttamente, vi meschia innumerabili latinismi, i quali evidentemente non erano usuali al volgar dialetto, ma formavano quella lingua nobile, e culta, in cui si scriveva. Rimarchevole che vi s’incontrino non pochi Francesismi oggi disusati affatto, e che allora il nostro linguaggio avea contratti dalla frequentazione co’ Francesi, regnando tra noi la linea d’Angiò de’ Conti di Provenza. Così vi si vede usata la voce ostieri per dinotar abitazione, dal Francese hostel, che oggi scrivesi hôtel, le voci requesta, requisi per dinotar ricerca, ricercati, dalle Francesi requéte, requis, ed altre.

Per dare un saggio dello stile di quello cronista, non men che della sua incredibile credulità, scempiaggine ed ignoranza della storia antica, rapporteremo qui i capitoli 17., 18., 19., e 10. del libro primo, dove si descrivono i benefizi, che per arte magica Virgilio fece ai Napoletani.


Come Virgilio per la piacevolezza del

Aero de Napole ce compose la

Georgica. Gap. XVII.


De la qual Cità de Napoli: Virgilio molto più chiaro de tutti li Poeti non pò tacere imperochè vi fu Officiale, et ivi scripse il libro
[p. 91 càgna]libro de la Georgica. In nel tempo quando Ottaviano ordenao Marcello Duca de li Napoletani, in nel tempo dil qual Marcello, essendo Consiliario. et quasi Rettore suo, o vero Maistro, [44] lui homo sagace, et discipulo de le Muse chiamato Virgilio Mantuano, si forano fatte le chiaviche sotto terra, avendo curso al Mare. E li puzi publici con li con dutti d’acque per diverse vie, et con sottile artificio congregate in uno alto monticello chiamato S. Pietro a Cancellaria, correno a le fontane publice fatte, et edificate in ne la ditta Città per la capacità dil qual Marcello, e per pregarle del ditto Virgilio, Ottaviano chiamò Napoli Donna de Nova Cita Oppido Castello murato [45] [p. 92 càgna]

Come Virgilio per arte magica levò lo malo aere da Napoli. Cap. XVIII.

In ne la qual Cità per l’ajero de le Padule in quel tempo si era gran habundantia de musche, in tanto, che quasi ingeneravano mortalità. Il sopradicto Virgilio per la grande affectione, la quale haveva a la dicta Cità, et a li soi Cittadini, se fè per arte de Nigromanzia una mosca d’oro, et fella furgiare grande quanto una rana sotto certi poncti

[p. 93 càgna]de stelle, che per la efficacia, et virtù de la quale mosca, tutte le mosche create in ne la Cità fuggevano, secondo che Alexandro dice in ne la sua opera, che egli vide la predicta in una fenestra del Castello de Capuana, et Gervase la sua Cronica, la quale se intitola li Risponsi Imperiali, proba questa cosa fosse stata così. Da pò la dicta mosca levata da quillo loco, et portata al Castello di Cicala, si perdio la virtute[46]. [p. 94 càgna]

Come per incanto levò le sanguesughe de l’acqua de Napoli. Cap. XIX.

Fè eziandio fare una certa sanguosuga, di oro formata sub certa constellazione, la quale fu gittata in del profundo de Pozzo Bianco, per la efficacia, et virtù de la quale le sanguesuche furono cacciate de la Cita de Napoli, le quale ce habbundavano in gran quantitate, et come mo manifestamente nei vidimo operante la divina gratia, senza la quale non se pò fare niuna cosa perfetta, la predicta gratia, et virtù dura per fino al dì d’hoggi, et durerà in eterno.

Come fè un Cavallo sub certa costellatione, che sanava le infirmità de li Cavalli[47]. Cap. XX.

Anche fè forgiare un Cavallo de metallo sub certa constellatione de stelle, che per la

[p. 95 càgna]visioni sola dil quale Cavallo le infirmiate s’haviano rimedio di sanità: il quale Cavallo li Miniscarchi de la Cità de Napoli havendo di ciò grande dolore, che non haviano guadagno a le cure de li Cavalli infirmi, si andaro una notte, et perfurarolo in ventre, da pò dil quale percussione, et roctura, il


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dicto Cavallo perdi la virtù, et fo convertuto a la construttione de le campane de la majore Ecclesia de Napoli in nell’anno 1322.[48] il quale cavallo si stava guardato a la Corte de la predicta Ecclesis de Napole.

Gli anni, che scorsero dalla morte di Carlo di Durazzo a quella della Regina Giovanna II. non ci presentano altri monumenti del dialetto, se non qualche Cronica, che ancor giace quasi sepolta, e manuscritta, come è quella di Notar Ruggiero Pappansogna, o qualche carta scritta in volgare da rinvenirsi per caso tralle più antiche schede di archivi, o ne’ protocolli di notaj, o [p. 97 càgna]in qualche processo. Ma ancor regnava tanto in tutti gli atti publici di legislazione, non men che negli atti civili, e giuridici il latino, che si stenta moltissimo a rincontrar frammento di scrittura volgare.

Pervenne finalmente al Trono per molti e tutti legitimi dritti di antica succeslìone da Costanza Sveva, d’adozione della Regina Giovanna II., e di conquista contro gli Angioini il magnanimo Alfonso d’Aragona, principe il più dotto, il più saggio, il più glorioso di quanti aveano fin a quel tempo regnato tra noi. Egli fu il ristoratore di quello Regno stato sempre infelicemente scosso, e sbattuto per più di un secolo dalle passioni, e dalla ambizione delle due Regine, e de’ numerosi Reali d’Angiò, tutti egualmente superstiziosi, intriganti, irrequieti, e dissoluti. Il sistema della legislazione delle finanze, che dura ancor tra noi, prende la sua origine da quello saggio Monarca. Tralle magnanime sue cure convien contare la regolar convocazione de’ Parlamenti, augusta assemblea rappresentante la Nazione, e degno organo per esprimere, e contestare l’amore, la fede, la volontaria concorrenza di essa ai bisogni dello stato, ed ai voleri del Monarca.

Pieno Alfonso di grandiose idee, e conoscendo quanto l’uso d’un proprio, e particolar linguaggio giovi a radicar ne’ nostri cuori quel nobile sentimento di onor nazionale, e d’attaccamento alla patria, da cui proviene ogni virtù terrena, deliberò, che messa da parte la corrotta, e straziata latina lingua, di cui fino allora erasi fatto uso, ed abbandonato del pari il Toscano dialetto, come non nostro, s’innalzasse il [p. 98 càgna]volgar Pugliese (oggi chiamato Napoletano) ad esser la lingua nobile della Nazione. Le leggi, le grazie, e i privilegj, le arringhe del Sovrano alla Nazione, e gli omaggi della Nazione al Sovrano, i giuramenti di fedeltà, gli ordini, i riscritti, e que’, che oggi chiamiamo. dispacci, tutto in fine quel più grande delle cose umane, a cui le parole si adoperano, volle che nel volgare Napoletano fosse concepito, e disteso; e così fu fatto. Ben è vero però, che avvezzi infinitamente gli uomini di lettere, i giurisperiti, e i magistrati a quel Latino corrente che fino allora unicamente aveano usato, si ritrovò questo nuovo linguaggio enormemente ripieno, e intarsiato di latinismi.

Il primo esempio di questo innalzamento del nostro volgare si ha dagli atti del sempre memorabile Parlamento celebrato nella Chiesa di. S. Lorenzo di Napoli nel Febbrajo del 1442. Potrà ciascuno osservargli nella collezione de’ nostri privilegj, capitoli, e grazie, dove sono tutti a disteso inferiti. Noi per saggio dello stile di essi ci contenteremo rapportar qui la conclusione del giuramento di fedeltà prestato in quel Parlamento al figlio naturale del Re, che fu chiesto per Duca di Calabria, e successor del trono dalla Nazione. Ad voi dunche Illustrissimo Signor Don Ferrando Duca de Calabria, et generale Locotenente da mò como ad Signor nostro, et Primogenito herede successore, et futuro Ré da hora per tando, cioè dapò de li felici dì del dicto Serenissimo Signor Rè vostvo Patre, simo vaxalli, et huomini ligii, alta fidelità, ligio, et homagio promettimo ad voi contra ogni persona. Le parole , , tando, e le [p. 99 càgna]inflessioni de’ verbi simo, promettimo palesano quel dialetto stesso, che oggi comunemente tra noi si parla; nè conviene arrestarsi alla diversa ortografia, essendo noto ai dotti, che gli siessi Dante, Petrarca, e Boccaccio, padri della eleganza Italiana, ne usarono una diversissima dal suono vero delle parole, e piena di latinismi, scrivendo experientia, facto, docto, etc, ed infinite altre parole scritte con una durezza, che poi tutta dispariva nella pronunzia.

Semplicità grande farebbe il credere, che quello linguaggio usato negli atti pubblici della Nazione, e del Re, non lo fusse stato per altro, che per ignoranza della buona lingua Italiana. Chi può ignorare la vasta erudizione del Re Alfonso, e del suo ministro Antonio Beccadelli Panormira, e di tanti nobilissimi ingegni, che coltivarono il Latino, e l’elegante Italiano nella corte di lui, e di Ferrante suo figlio? Serafino Aquilano, e Antonio Tibaldeo fiorirono in quel tempo tra noi. Ma per terminare il disinganno, rapporteremo un’ordinanza, che noi diremmo oggi Dispaccio, del Re Alfonso II. dell’anno 1494.

„ La ditta Majestà per comodità tanto publica, quanto particolare, beneficio de la soa Cità, et Citatini de Napoli, et anco per commodità de majore opportunità de li confluenti, permette, ordina, et dispone le infrascripte cose, cioè.

In primis, che sia lecito ad ogne persona, quale tene, et possede territorij in lo territorio de la ditta Cità de Napoli, et in le costere, et valuni de Chianura, et in li valluni de Quarto, et in le selve de [p. 100 càgna]Mariglanella, Marano, et de Santo Juliano, et in qualsevole altro loco de lo territorio de la ditta Cità de Napoli sè possa tagliare, coltivare, et pasculare cum animali ad arbitrio, beneplacito, et voluntà de li patroni de ditti terreni, perché ditta Majestà vole, et dona licentia, et omne persona se possa gaudere valere de lo suo, reservando, et exceptuando solamente, che nulla persona, de qualsevoglia stato, grado, et conditione se sia, possa, nè debbia ire ad cacza de animali salvagine, pigliare starne, nè fasani in lo territorio de la Cità de Napoli, a la pena de stare in galera ad arbitrio de dicta Majestà; imperò sia lecito ad ciascuno andare ad cacza de lepari, et de volpe. Reservase etiam dicta Majesià, che nulla persona possa, nè debbia andare ad tagliare, nè pasculare soy animali, nè coltivare in li monti de li Stroni con li valluni, et pendente de la Sulfatara, ne li monti de li Serpi, quali sono reservati, et se riservano per lo piacere, solaczo de la cacza de la dicta Majestà, a la pena de dece onze per uno per volta da applicarse a lo Regio Fisco. Guardese qualsevoglia persona de fare lo contrario de quanto se contene in lo presente bando. Dat. in Castello Novo Neapoli XV. Februarii 1494. Jo. Pont.„

Chi potrà persuadersi, che l’illustre, il dottissimo, l’elegantissimo Giovanni Pontano, che scrisse, e firmò questo dispaccio, non sapesse scrivere Italiano meglio che così? Chi potrà crederlo di un amico, e d’un compagno di Jacoco Sannazzaro, ed in quegli anni appunto, che costui scriveva quell’incomparabile Arcadia, le [p. 101 càgna]cui prose non han trovato poi fra tutti gl’ingegni Toscani, e Italiani chi potesse uguagliarle nell’eleganza, nelle grazie, nella soavità?

Credasi adunque, che il dialetto Napoletano fu consecrato da’ nostri Re Aragonesi agli atti pubblici, e alla legislazione unicamente per decoro della Nazione, e perchè non si credeva allora, che dovesse anteporsegli il Toscano; ma non già perchè mancasse chi potesse scrivere nel dialetto Toscano. Ciò si conferma dal vedersi, che costantemente si sostiene il nostro dialetto per cento, e dodici anni, quanti ne scorsero dal 1442. fino al 1554. in tutti i seguenti atti.

Parlamento celebrato in S. Lorenzo nell’anno 1442. sotto Alfonso I.

Grazie chieste dalla Città di Napoli nel 1459., anno della coronazione di Ferdinando I.

Grazie chieste dalla Città di Napoli all’istesso Re nel 1462.

Grazie chieste dalla Città di Napoli all’istesso Re nel 1466.

Grazie chieste dalla Città di Napoli nell’anno 1476.

Grazie chieste dalla Città di Napoli al Re Ferdinando II. d’Aragona nel 1495.

Grazie chieste dalla Città di Napoli, unita al Baronaggio del Regno, al Re Federico d’Aragona nel 1496.

Grazie chieste al Gran Capitano dalla Città di Napoli nel 1503.

Grazie chieste dalla Città di Napoli al Re Ferdinando il Cattolico nel 1505.

Parlamento celebrato in Napoli nel 1507.

Parlamento celebrato in Napoli nel 1508. [p. 102 càgna] Capitoli del ben vivere publicati nel 1509.

Grazie chieste dalla Città di Napoli nel 1520.

Parlamento convocato in Napoli dal Cardinal Colonna nel 1532.

Donativo fatto da’ Baroni nel 1535.

Parlamento dello stesso anno, nel quale a nome dell’Imperator Carlo V, che vi fu presente, si parlò alla Nazione in lingua Napoletana.

Parlamento celebrato in Napoli dal Vicerè di Toledo nel 1538.

Parlamento convocato in Napoli nel 1540.

Grazie chieste all’Imperator Carlo V. in Bruxelles nel 1550.

In tutti i quali atti non si scopre la minima alterazione di linguaggio.

Che la lingua, che usò la Cancelleria de’ Re Aragonesi in quel tempo, fusse egualmente nel volgare dialetto, ne fanno chiara testimonianza le lettere di corrispondenza politica, e le istruzioni pubblicate da Ottavio Albino dietro alle Istorie di Giovanni Albino in Napoli 1589. presso il Cacchio. Ne fanno fede, egualmente i Capitoli del Ben vivere (spezie di leggi municipali) fatti in que’ tempi distendere da moltissime università del Regno, ed approvati da’ loro Baroni, che si davan aria di Sovrani, e che esistono manoscritti ne’ nostri archivi, e negli antichi processi.

Se il coragioso atto del Re Alfonso d’innalizare il nostro dialetto ad esser il linguaggio del Sovrano, e delle assemblee della Nazione fosse stato secondato da’ più nobili ingegni del suo tempo, certamente ne avrebbe cambiata la fortuna: dappoichè è fuor di dubbio, che sono i sublimi, gli eleganti, i delicati concetti que’ soli, [p. 103 càgna]che ci familiarizzano co’ suoni delle voci di qualunque lingua, le quali per loro natura, e per se stesse non sono mai nè belle, nè brutte, nè dolci, nè aspre tanto da non poter esser vinte dall’abitudine, che ce le renda grate, e gustose.

Ma l’Accademia celebre fondata da Giovanni Pontano, in cui i più dotti uomini d’allora si aggregarono, non secondò le mire di quel Sovrano e del fuo figlio Ferdinando. Il Sannazzaro, Gio: Francesco Caracciolo, autore di delicatissime rime, il Cariteo segretario di Federico d’Aragona, ed altri coltivarono unicamente quel dialetto stesso, che era nato per così dire sotto la penna del Petrarca, e del Boccaccio; e quindi avvenne, che nè Angelo di Cosianzo, nè il Brittonio, il Tanfillo, l’Epicuro, il ummonte, il Rota, il Meo, l’Equicola, nè altri, che poi nella susseguente età fiorirono in gran copia, coltivassero il nostro dialetto. Solo Francesco del Tuppo, Giureconsulto Napoletano, osò scriver in esso la favolosa vita d’Esopo latina, ed italiana, alla quale sussieguono le traduzioni in prosa, ed alcuni commentarj morali, e istorici sopra sessantasei favole, ed apologhi di Esopo, da lui messi in versi latini con bastante eleganza[49]. [p. 104 càgna] Lo stile di lui è da chiamarsi piuttosto un comune, e culto Italiano, quale da’ dotti si parlava in Napoli, che non un puro e pretto idiotismo. Vi si scorgono perciò molti latinismi sì nelle voci, come nelle costruzioni delle frasi. Rimarchevole poi è il vedere, che non per ischerzo, e per affettar lepidezza usa le particolari voci, ed espressioni del suo dialetto, ma solo perchè non credeva, che fossero da abborrirsi, e posporsi alle Toscane. Daremo per saggio dello stile di questo scrittore la breve spiegazione, che fa della Favola XXVII., nella quale si descrive la nascita del sorcio dal parto della montagna espressa felicemente da Orazio col solo verso: Parturient mentes, nascetur ridiculus mus.

[p. 105 càgna] Era la terra intorzata,[50] et con gran tomore geme, quello gemito dona grande stupore ad masculi, et femene, pensando, che la terra havesse ad parturire qualche cosa de stupore, et cussì crescendo la terra mostrò uno terribile mostro: la gente teme con grandissima paura se derrassano [51] dal loco per timore, che have ano de stare vicino: tornò in riso quillo grande timore, perchè quello loco cussì [52] aboffato partorì uno sorece. Parze alla gente uno joco vedendo lo piczolo animale, dove prima facea alloro grande timore[53].

Or innalzato a quest’auge il nostro dialetto, che nell’opere di erudizione e di morale si vedeva adoperato, no non sarà certamente poi meraviglia, che uomini desiderosi di conservare la memoria de’ fatti avvenuti all’età loro si fossero messi a scriver in esso per piacer loro, e [p. 106 càgna]senza pensiero di publicarle, alcune Cronichette. Ne esiste una in qualche biblioteca di Notar Ruggiero Pappan sogna, della quale non ci siam potuti procurar nemmeno la veduta, poiché i custodi di esse, simili agli eunuchi de' serragli nè toccano i libri, né vogliono, che altri gli tocchi. Di due altre Croniche l’una di Lucio Cardamo, l’altra di Antonio Coniger, ambedue Leccesi, e scritte nel dialetto di quella provincia, siam debitori alla diligenza, erudizione, e vero amor della patria, del fu Giamberardino Tafuri, d’averle il primo pubblicate.

Lucio Cardamo di Gallipoli nacque nell’anno 1410. Scrisse delle cose accadute nei suo tempo fino all’anno 1484. I suoi Diarii furono pubblicati per la prima, volta da Bernardino Tafuri in fine del Tomo III. della sua Storia letteraria. Da essi apprendiamo, che fu in Roma in tempo del Giubileo del 1450., e nel 1463. si portò in Lecce in qualità di Sindaco a prestare in nome di quel pubblico il giuramento di fedeltà al Re Ferdinando I. d’Aragona. Nel 1481. intervenne al campo degli Aragonesi contro i Turchi sotto la città d’Otranto. Finalmente cessò di vivere, come si reputa, dopo intronizzato Alfonso II. Re di Napoli.

Antonello Coniger autore d’una Cronica volgare fu pubblicata per la prima volta da Bernardino Tafuri in fine dello Tomo VIII. della sua Storia con alcune annotazioni. La Cronica comincia dal 938., ed il Padre Antonio Beatillo della Compagnia di Gesù ne fa parola nell’indice degli scrittori citati nella vita di S. Irene nel seguente modo. „Antonello Coniger gentiluomo Leccese in una Cronica, che fa dall’ [p. 107 càgna]anno del Signore 938. fino al 1512. Si conserva ms. presso del Signor Conte D. Vittorio Prioli.»

Di quelle due Croniche non rapporteremo luoghi per dar idea dello stile, essendo esse scritte nel dialetto Leccese, che in quel tempo rassomigliava assai più al Siciliano, e al Calabrese, che non al dialetto Pugliese, o sia Napoletano.

Giuliano Passero Setajolo avendo, come egli narra, trovato da’ suoi antenati notato brevemente qualche avvenimento de’ loro tempi, s’invogliò di continuarne la narrazione più diffusamente, scrivendo ciocché avvenne all’età sua; onde venne a fare una Cronica curiosa, che dagli ultimi anni del Regno di Ferrante il Vecchio arriva all’anno 1526. Rimane ancora manoscritta, e noi ne abbiamo avuto in mano un esemplare assai accuratamente trascritto, e postillato da Innocenzo Fuidoro più di cento anni fa, e confrontato coll’originale, che conservavasi presso Giambattista Bolvito. È pregevole la semplicità, e veracità di questo Cronista. Rispetto ai linguaggio, egli usa quello, che i suoi compatrioti culti allora usavano così senza affettazione, come senza erubescenza. Seguendo il nostro uso di dare un saggio dello stile di questi nostri primi scrittori, rapporteremo un passo tratto da questa Cronica, e fedelmente trascritto colla stessa ortografia del manoscritto.

Alli 9. d’Agosto 1516. di Domenica in lo Monasterio di Santa Maria de lo Carmine venne un Frate di ditto Habito, et al presente andava vestito dell’Habito di Santa Maria de la Grazia, lo quale venne da [p. 108 càgna]Lombardia, et era Spagnuolo, et ogni dì diceva Messa, et detta Messa durava tre hore d’horrologio, che nante se diceva sei Messe da altri Frati, che non la sua, et dopo detta Messa se spogliava, et se n’entrava nello Capitolo, al Claustro, et là venevano tanti infermi de mali Franzesi, et de più, et diversi mali, et lo detto Frate non faceva altro lo liccava con la lengua tanto de homini, come de donne in qualsivoglia parte de la persona; in fixe era tanto lo concorso de le genti tanto Napoletani, como Forastieri, che era cosa stupenda, et certo chi non vedeva quello che detto Frate liccava con la lengua, non lo può credere, tutto lo suo medicare era con la lengua tanto ferite come piaghe de male Franzese, como piaghe d’occhi, como de membri deshonesti, tutto comportava con la bocca, et lingua: mai sputava, se non che se lo inghiotteva, la quale era cosa molte aborrevole a vedere: dico, che vedendo quello che lecca in secreto, non ci è core, che la potesse comportare, che non se conturbasse, che non buttasse per la bocca. Questo atto: non se ricorda mai esser visto tanto in Cristianità come in Paganìa.

All’istessa Epoca de Re Aragonesi convien riportare i primi componimenti in verfi nel nofro dialetto, che siensi conservati fino a noi. Intendiamo dire degli Epici, e de’ Drammatici; perchè riguardo ai Lirici è assai verisimile, che qualche canzonetta fin dalla più remota antichità rimanga ancora tra quelle, che il volgo canta, come in appresso diremo. Ma rispetto ai Drammatici furono i Sovrani Aragonesi quegli, [p. 109 càgna]che i primi in tutta l’Europa, e molto innanzi a quel tempo, che volgarmente si crede da coloro, che dal solo Sig. de Voltaire si lasciano istruire, e guidare, pensarono di dare nella loro Corte spettacoli Teatrali, ed in musica, che chiamaron Farse. Sotto questo nome non solo s’intesero i Drammi giocosi, ma anche quegli di argomento eroico. Tale è la Farsa che dovè comporre il Sannazzaro per rappresentarsi nella Sala di Castel Capuano a’ 4. Marzo del 1492. sollennizzandosi dal Duca di Calabria Alfonso la vittoria ottenuta da’ Castigliani contro i Mori di Granata. Fu questa Farsa scritta in purissimo Italiano e rimeggiata d’una maniera nuova[54].

Ad imitazione di essa Antonio Caracciolo poeta, di cui non sappiamo altro che questo nudo nome, compose per divertimento di quella: magnifica Corte altre Farse comiche, e giocose nel dialetto Napoletano corrente allora. Usò la stessa bizarrissima foggia di rimare del [p. 110 càgna]Sannazzaro, la quale può in verità riguardarsi come una primizia di quel crudelissimo verso Martelliano, che l’età nostra ha veduto nascere per aumento delle Teatrali afflizioni, e delle orecchie degli uditori. Il manoscritto unico, che ci ha conservate queste Farse del Caracciolo, sarà da noi pubblicato ne' volumi, che ci prepariamo a far seguire al presente, se si potrà espugnare la ritrosia del possessore, che finora si mostra gelosissimo di comunicarlo. Intanto rapporteremo qui solo pochi versi d’una scena per dar idea non meno del linguaggio che della maniera di rimare in essa usata.

Matalena. Sera me disse Rosa mia vicina,
Ca tu da hieri matina te sposaste:
Perchè non me mannaste a convitare,
Ca te veneva a fare compagnia?

La Zita. Ab sore cara mia, non è, non è:
Cride ca senza te maje lo facesse,
Che nnanze me venesse la quartana;
Tutta questa semmans è bè lo vero,
Ca nce tengo penziero de lo fare;
Ma non vorria pigliare pe marito
Se nò mastro Vito de Battista.

Incitato, come è credibile dall’esempio di Antonio Caracciolo, lo stesso gran Sannazzaro (la maggior gloria della nostra patria) non degnò impiegar la sua penna nel dialetto natio. In esso scrisse una spezia di farsa intitolata lo Gliomero, voce Napoletana, che corrisponde alla Toscana Gomitolo, del quale Giovan Battista Crispo nella vita di Sannazzaro parla così. „Nè pur oggi è fatto antico in Napoli [p. 111 càgna]fra gli altri suoi componimenti uno, detto: dal volgo di essa Città, Gliomero, nome conveniente all’opera in cui si raccolgono tutte sentenze, e voci goffe del parlare antico Napoletano, con digressioni molto ridicole, segni non oscuri della fertilità dell’ingegno di esso Poeta„. Colle quali parole lascia in dubbio il Crispo i lettori, se lo Gliomero del Sannazzaro avesse ad annoverarsi tra le poesie Liriche, e Ditirambiche, ovvero tralle Drammatiche. Ma il Chioccarello nella sopraccitata opera manoscritta più chiaramente parlandone, ci toglie da ogni dubbiezza, scrivendo così: Carmina quoque materna lingua, ac rudi Neapolitana ad risum provocandum aptissima edidit ad Federicum Regem, que Glomeros appellavit, et Comedie loco eidem Regi, ac proceribus exhibita sunt, adhuc manuscripta circumferuntur.

Da una nota, che Giovanni Antonio Volpe appose alla farsa Toscana del Sannazzaro, pare, che si vada a comprendere, che a lui fossero state dal chiarissimo nostro Matteo Egizio insieme con quella farsa mandate le copie manoscritte anche dello Gliomero, e delle altre opere Drammatiche del Sannazzaro: ma egli credette ben fare a non pubblicarle, spiegandosi, che a lui pareva „che sì fatti componimenti riescono poco onorevoli ai loro autori, i quali certamente non gli fecero per trargli lode, o per pubblicargli, ma ad istanza di signori, o di amici, dettandogli in istile umile, e popolare, e non curandosi molto di limargli, o di ripulirgli. Di tal maniera ne abbiamo alcuni altri del medesimo autore presso di noi; ma [p. 112 càgna]stimiamo bene di sopprimergli per non far torto con soverchia diligenza alla fama di poeta sì grande, che mentre viveva, era censore severissimo delle sue cose, com’è costume degli uomini veramente dotti.„

Dio gliel perdoni, se pur lo merita, d’aver creduto, che un Napoletano commettesse un delitto inespiabile a scriver nel suo linguaggio. Quanto più giustamente avrebbe opinato il Gio. Antonio Volpe a creder degno d’esserci conservato il più antico monumento della commedia buffa rimata, e messa in musica. Intanto con questa sua mal immaginata ritrosia siamo ora noi nella crudele incertezza, e nel palpito, che forse lo Gliomero del Sannazzaro siasi totalmente perduto. Certo è, che per molte ricerche da noi fattene, non ci è finora riusciuto disotterrarlo. Se avremo tanta sorte, sicuramente lo pubblicheremo, e l’illustreremo. Non può non esserne degno, essendo parto di quel felicissimo ingegno.

Perduti i propri Re, andò ecclissandosi ogni nostra gloria, come era naturale l’immaginarlo. Gli ameni studj indivisibili compagni dell’opulenza, e della felicità decaddero; e sotto il crudele, e lungo governo di D. Pietro di Toledo, la nazione piombò nel languore dell’avvilimento, e d’una forzata stupidità. Rimasero solo alcuni potenti Baroni, che continuarono ad ispirar qualche debole soffio di vita alle lettere, ed esserne mecenati. Tra essi si distinsero gli Avalos Marchesi del Vasto, e di Pescara.

Il Conte Mazzucchelli nella grand opera che intraprese, della notizia di tutti gli Scrittori Italiani, rapporta, che Girolamo Brittonso da [p. 113 càgna]Sicignano Poeta illustre fiorito nel 1530., e che seguace indivisibile del gran Marchese di Pescara Francesco Ferrante d’Avalos, lo accompagnò anche negli eserciti, e in tutte le sue imprese, apparecchiaro non meno al combattere, che allo scrivere, e all’adulare, avesse in lode del medesimo composto un Poemetto in Dialetto Napoletano, del quale dà la seguente notizia: „Il Triunfo de lo Britonio, ne lo quale Parthenope Sirena narra, e canta gli gloriosi gesti de lo gran Marchese di Pescara, terzine in Dialetto Napolitano. Questo Trionfo si conservava mss. in Firenze nel cod. 927. num. 11. della Libreria Gaddi; i cod. mss. della quale comperati dal Gran Duca Francesco I. Imperatore sono passati l’anno 1755. per regalo di esso Sovrano nella Libreria Laurenziana„.

Noi abbiamo impiegata l’opera, e la diligente cura d’uno de’ più dotti uomini di Toscana, della cui amicizia ci gloriamo, per rinvenire questo Poemetto del Brittonio, che farebbe a vero dire pregevolissimo per noi: ma ogni diligenza, ed ogni ricerca è stata vana. Il Codice citato dal Conte Mazzucchelli esiste, e contiene Poesie Italiane, ma sono rime de Poeti del secolo XIV., e non del XVI. giacchè in testa della pag. 2. vi si legge a chiare note l’anno MCCCLXVIIII. Nel codice veggonsi strappate quattro, o cinque pagine, nelle quali potrebbe sospettarsi, che fossero state queste terzine: ma la cosa si rende poco credibile perchè l’ultimo raccoglitore de’ manoscritti della Gaddiana fu Angelo Gaddi anteriore all’età del Brittenio. Le ricerche si son fatte non [p. 114 càgna]solo nella Magliabecchiana, dove ora esiste il Codice citato dal Muzzucchelli passato ad essere della classe VII. sotto il num. 723., ma si son anche fatte nella Laurenziana, e non solo ne’ manoscritti, ma ne volumi stampati di ambedue queste insigni Librerie: tutto è stato vano. Noi non pessiamo però indurci a credere, che il diligentissimo Mazzucchelli si abbia immaginato un poemetto non mai esistito. Crediamo soltanto, che equivocando nel citare il luogo, dove dimenticato giace, ce n’abbia fatta smarrire la traccia. Invitiamo dunque tutti gli amanti delle amene lettere (seppur ne esistono ancora in questa età, in cui la moda si è rivolta verso certi studi creduti più utili, perchè sono più oscuri, e più tediosi) a ricercarlo; ed incontrandolo ad indicarcelo, avendo noi pensiero di pubblicarlo, ed illustrarlo.

Dal Trionfo del Brittonio fino alle poesie del Basile, e del Cortese, per lo spazio quasi di un secolo, noi non troviamo altre poesie nel dialetto patrio, se non se qualche breve canzonetta, delle quali ci han conservata memoria) accennandone i soli versi iniziali, il Basile, ed il Cortese, che le annunziano, come riguardate per molto antiche all’età loro. Noi per nulla tralasciare di quanto concerne l’istoria del nostro dialetto non le trapasseremo del tutto. Eccone la più delicata, e la più ingegnosa.


I. Vorria, che foss’io ciaola, e che volasse
       A sta fenesta a dirte na parola,
       Ma non che me mettisse a na gajola.
   E tu da dinto subbeto cbiammasse,
       Viene Marotta mia, deh: viene Cola,

[p. 115 càgna]

      Ma non che me mettisse a na gajola.
   Ed io vertesse, e hommo retornasse,
      Comm’era primmo e te trovasse sola,
      Ma non che me mettisse a na gajola.
   E po tornasse a lo buon sinno gatta,
      Che me ne scesse pe la cataratta,
      Ma che na cosa me vertesse fatta.

Della seguente non ci hanno lasciata notizia il Basile, ed il Cortese, se non che della prima, strofa.

II. A la rota, a la rota
      Mastr’Ange ce joca;
      Nce joca la Zita,
      E Madamma Margarita.

I versi, che susseguivano, mancano, ma ci sembra canzone antica assai, e fatta ne’ tempi del Re Carlo III. di Durazzo, e della Regina Margherita d’Angiò. Si cantava ballando quella spezie di danze in giro, che i Francesi dicono Rondes, o Branles, i Toscani carole; noi le chiamavamo Ruote. Anche gli antichi Francesi al pari degli antichi Italiani usarono cantar qualche canzonetta nell’atto di far quella danza allegra, e semplice, e di così remota antichità, che risale ai primi tempi de’ Greci, e de’ Romani. È celebrata la canzone fra essi per accompagnar questi Branles, che comincia:

Quand Biron voulut dancer.

Parimente hanno servito le due susseguenti canzonette ad accompagnar col canto le liete, carole. [p. 116 càgna]

III. Jesce jesce Sole,
      Scajenta Mperatore,
      Scanniello mio d’argiento,
      Che vale quattociento;
      Ciento cinquanta,
      Tutta la notte canta,
      Canta viola
      Lo masto de scola;
      O masto, o masto
      Mannancenne priesto,
      Ca scenne Masto Tiesto
      Co lanze, e co spate
      Da l’aucielle accompagnato.
      Sona sona zampognella,
      Ca t’accatto la gonnella,
      La gonnella de scarlato;
      Si non suone, te rompo la capo.


Malgrado che in questa canzonetta, che ancor oggi i fanciulli cantano, vi s’incontri più rima, che ragione, vi traspare però quell’innocente allegria, che regnava in que’ secoli rozzi, ma non del tutto infelici. La crediamo de’ tempi di Federico II. Imperatore. Eccone un altra dello stesso calibro.

IV. Non chiovere non chiovere
      Ca voglie ire a movere
      A movere lo grano
      De Masto Giuliano.
      Masto Giuliano
      Prestame na lanza,
      Ca voglio ire Nfranza,

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Potrà ciascuno essersi già avvisto, che noi ci siamo religiosamente attenuti dal nominare veruno degli scrittori nel nostro dialetto così drammatici come lirici ancor viventi. Sonovene non pochi. D’essi giudicherà la posterità palesemente, come ne ha già giudicato sotto voce l’età corrente. Parlar di viventi ancorchè in lode senza avernegli prevenuti, ed ottenutone il consenso è sempre un mancar al dovere più sacro della società, qual’é quello di rifpettare l’altrui libertà. Impeto d’una orgogliosa stupidità ha solo potuto essere l’eriggersi da per se stesso in pesatore de’ suoi concittadini, e coetanei, e il mettersi a descrivergli, definirgli, e valutargli, come un apprezzatore farebbe d’una razza di cavalli, o d’una carovana di muli.

    schiacciata, e sfrantumata, che era sul Teatro Ercolanense, fu convertito a far la statua della Concezione, e i candelabri della Cappella della Real Villa di Portici e parimente di quella quadriga si son salvati un sol cavallo, le teste degli altri tre, ed alcuni frammenti del cocchio.

    le di Nerone eretta da’ Napoletani a questo Imperatore, che tanto si deliziò nella Campania Felice, che poi o per ingiuria del tempo, o piuttosto per odiosità del nome di così sciagurato Principe buttata giù giacque molti secoli a piedi del suo piedistallo in quel luogo, ove oggi è la piccola piazza laterale al Duomo, nella quale evvi eretta un’antica colonna guastata da lussureggianti ornamenti dal Cavalier Cosimo Fanzaga. La favoletta de’ maniscalchi, che per distrugger l’incantesimo l’avessero rotta, è una copia di quell’altra pur nostra favola, che i medici della Scuola Salernitana avessero rotte lo iscrìzioni de’ bagni di Baja, mediante le quali ogni malato leggeva l’efficacia de’ bagni, gli prendeva, e risparmiava di pagar il medico. I preziosi frantumi di tanto metallo invogliarono Carlo I., che edificò l’attuale nostro Duomo, e vi fece il Campanilé, a servirsene per le campane, e così risparmiar la compra d’altro bronzo. Pare che sia stato una spezie di fato di espiazione, che il metallo delle statue del primo persecutor de’ Cristiani abbia per forte servito ad usi sacri cristiani. Anche a dì nostri molto metallo della quadriga di Nerone

    denza di commercio. Sotto quella Regina Giovanna I. allorché nel 1343. fuvvi una gran tempesta descritta dal Petrarca, e poi da Angelo di Costanzo, perirono nel porto di Napoli tre galee, che erano venute da Cipro, e stavano sul punto di tornarvi, e nel 1372. arrivò in Napoli lo stesso Re di Cipro, e fu dalla suddetta Regina a lui congiunta di sangue, di nazione, e di alleanza amorevolmente accolto. Sicché dal lavorarsi forse sì fatta flotta di seta in Cipro, paese abbondantissimo di ottime sete, potè formarsi la voce Ciprese. L’uso conservato fino al dì d’oggi è, che quello cotriello, in cui si mandano i bambini ravvolti a battezzare, sia ricchissimo, onde è che alla gente povera gli fornisce la stessa levatrice, che ne tiene a tal effetto de’ superbamente ricamati, e gallonati.

    giacchiè è usitatissimo ancor oggi il dire te venga la zella; e prende origine sì fatta imprecazione fin da’ Romani. Occupet extremum scabies, disse Orazio.

  1. Non possiam tralasciare di avvertire, che in certa collezione di scrittori nostri, che ne’ passati anni intraprese di pubblicare il libraio Giovanni Gravier al Tomo XI. fu inserita quella Cronica già pubblicata dal Muratori, e all’editore venne in capo di mutarne il linguaggio, e l'ortografia. Chi sa quanto merito avrà creduto acquittarsi presso Dio, o presso il mondo per aver gratuitamente rinegata la patria, e la verità!
  2. Questa desinenza di parola e tutte le sue consimili ne’ libri anteriori al 1500. trovasi sempre scritta coll’ao contuo, cercao, arricordao &c. Questa sola mutazione d’ortografia abbiam noi creduta necessaria di fare dall’edizion del Muratori, perchè siam persuasi, che la moderna maniera di scriver aje rende meglio il suono della pronunzia, la quale anche, in que’ tempi era simile all’attuale.
  3. Il bravo P. Papebrochio, che fu il primo a pubblicare quelli Diurnali, ma da lui tradotti in latino,n on intendendo troppo il nostro linguaggio, pigliò qui un granchio a secco. Credette Scapizzacuollo un nome di luogo, e tradusse Donatillus ivit Spezzarolum. Ringraziamolo d’aver arricchita la nostra Geografia, ma avvertiamolo che se Scapizzacuollo forsse un luogo, non sarebbe un oscuro villaggio; aarebbe un Cittadone, tanta è la gente, che continuamente vi è corsa, e vi corre.
  4. Oggi la Taverna di Morcone.
  5. Zitella dinotava allora una donna giovane, oggi dinota precifamente una donzella non maritata.
  6. Vacantia è voce propria del dialetto Pugliese, nè la usano i Napoletani. Dinota una donna non maritata.
  7. Qualche altro esempio di parole, che furono un tempo generali Italiane, ed ora sono ridotte a soli idiotismi nostri, s’incontrerà nel Vocabolario.
  8. Biello. L’analogia indulse in errore il Boccaccio. I Napoletani dicono cappiello, aniello, cerviello etc. per Cappello, Anello, Cervello; dunque credette, che dicessero biello per bello, e s’ingannò. Ha replicato fino a tre volte quest’abbaglio nell’atto, che due altre volte in quella lettera ha detto bello senza errare.
  9. Bita. Ancorchè i Napoletani permutino spessissimo l'u in b, come abbiam più volte detto di sopra; ciò si fa però in certi casi soli, e con certe regole, contro le quali ha peccato almeno fino a dieci volte il Boccaccio in quella Epistola. Qui dovea scriver vita, non bira. Al verso 36. dovea scriver venire scaja, e non benire. Al verso 48. dovea scriver voglio dicere, e non buoglio dicere. Al verso 72. dovea scriver avissevo veduto, e non apissovi beduto. AI verso 103. dovea scriver scrivere, e non scribere. Al verso 132. dovea scriver scrivecello, e non scribelillo. Al verso 136. dovea scriver vedere, e non bedere. Al verso 146. dovea scriver veamoti, e non beamoti. Al verso 147. dovea scriver Vernacchia, e non Bernacchia. Per contrario ha messo l’u dove dovea metter il b. Così nel verso 128. ha detto ave in vece di dir abbe.
  10. Levao. Levare usato da’ Toscani in senso del raccoglier il bambino: noi diciamo pigliare. Ma a’ tempi di Giovanna I. è possibile, che usassimo la stessa voce de’ Toscani: e però anche più facile, che sia un Toscanismo del Boccacio.
  11. Ancuccia. È voce oggi tanto disusate, che caderebbe dubbio se mai l’abbiamo avuta. Vedesi, che il Boccaccio l’usa in semso di fattezze.
  12. Apisse aputo. Consimili caricature di pronunzia non le abbiamo mai avute. Solamente negli Scrittori veramente nostri di quel tempo si trova abuto in vece di avuto.
  13. Madama. Dal momento, che gli Angioini pervennero al Trono di Puglia, e di Sicilia, alle Regine, ed alle sole Principesse del sangue Reale si dette costantemente il titolo di Madama, nè mai gli scrittori di quel tempo trascurarono di dirlo ad esse.
  14. Nuostra. L’analogia induce sempre in nuovi abbagli il Boccaccio. Nuostro in vece di nostro dicono i Napoletani nel mascolino, mai poi nel femminino dicono nostra. A buon conto quattro volte in così corta lettera ha commesso questo fatto, a cui ha aggiunto d’aver scritto cuosa in vece di cosa, tuorcia in vece di torcia, pruoprio in vece di proprio, juocate in vece di jocate, buoglio in vece di voglio, credendo accollarsi al suono della nostra pronunzia, dalla quale si è anzi scostato, ed è caduto nell’accento Siciliano, o Calabrese.
  15. Chiacere. Anche quì fu ingannato dall’analogia. Siccome i Napoletani dicono chiù, chiovere, chiano in vece di più, piovere, piano, così egli credette dover dir chiacere in cambio di piacere, e fino a sei volte replicò questo grosso errore.
  16. A cuorpo. Corrispondeva al Toscano di botto. Era una maniera di dire presa dal Francese, allorchè i Sovrani di quella nazione regnando tra noi aveanci introdotte nel linguaggio molte parole di quella lingua . Usano assai i Francesi la voce coup, dicendo beau coup, d’un coup, a coup sur &c. Oggi è affatto disusato quello modo di dire a cuorpo per dinotar subito.
  17. Scaja. Corrotto dal latino scabies. Oggi voce disusata affatto. Ma non è mutata l’imprecazione giocosa, che qui usa il Boccaccio,
  18. Arquanti, alcuna, levao, bien mi tene, ben mi poterano, bien se ti chiace , cobille, sono tutti Toscanismi pretti, che scappano al Boccaccio, e traspajono di sotto a questa veste sforzata di pronunzia Napoletana, che egli si studiò d’imitare. Bisogna confessarlo, avea appresa taluna voce, e frase nostra, ma sapeva pochissimo il dialetto tutto. Il saper ben una lingua non natia, è una impresa assai più dura, che non pare. Tito Livio istesso peccò, al dir di Pollione, di Patavinità. Rousseau, l’eloquentissimo Rousseau pecca di Ginevrità, e il gran Boccaccio peccò di Toscanità, quando volle scriver in Napoletano.
  19. Ciprese. Parola oggi ignotissima. Vedesi aver dinotato ciocchè chiamasi da noi cotriello, e da’ Toscani coltricella, nella quale si ravvolgono i bambini di sopra le fasce. Pare credibile esser derivata quella voce da Cipro, isola in quel tempo nobilissima, e doviziosa, tralla quale, e Napoli eravi grandissima
  20. Dello ’maelloso. Non formando alcun senso sì fatte voci, le crediamo error di copisti, e che debba leggersi de Cambelloto.
  21. Chiena de carline. In que’ secoli di fervorosa divozione per render più preziosi i cerei offerti alle Chiese si solevano arricchire con molte monete inzeppate nella cera. Ora che la pietà è raffreddata di molto, altro non è reslato, se non che la memoria di tal uso ridotto alle indorature, e inargentature de’ cerei, che s’offrono all’altare, e fu’ quali si fanno varj ornamenti d’intagli, ove potrebbero affiggersi monete; ma i carlini non vi si veggono più. molte monete inzeppate nella cera. Ora che la pietà è raffreddata di molto, altro non è reslato, se non che la memoria di tal uso ridotto alle indorature, e inargentature de’ cerei, che s’offrono all’altare, e fu’ quali si fanno varj ornamenti d’intagli, ove potrebbero affiggersi monete; ma i carlini non vi si veggono più.
  22. Tutti questi nomi, e cognomi finti e strani gli ha accozzati il Boccaccio per dar saggio delle caricature del dialetto; ma non sono cognomi di famiglie nobili, che abbiano esistito in veruna delle nostre Piazze. Erano cognomi popolari.
  23. Serrillo. Deve leggersi Sarrillo. Sarr- è abbreviatura del nome di Baldassarro conservata ancor oggi in taluna famiglia. Non sono molti anni, che è morto D. Sarro d’Afflitto: ma generalmente è disusata.
  24. Parimente ne’ nomi di quelle donne volle mostrar la caricatura. Catello è nome del Santo Tutelare di Caftellamare di Stabia, ed è ancora usualissimo. Zita è la abbreviatura del nome di Brigida, disusato in tutto, Ora diciamo Prizeta.
  25. Chiazza. Chiazza, e Sedile sono sinomini tra noi, come ognun sa.
  26. Feta. Latinismo, che stentiamo a credere essere mai stato nel nostro dialetto.
  27. Zeppe ertavellate. Nome di cosa appartenente all’acconciatura delle teste di allora. Pare che abbia dinotato quella spezie d’ornamento di testa schiacciato che si vede espresso nelle dipinture, degli abiti di quel tempo. Vedi al Vocabotario la yoce zeppole.
  28. Manecangiane. Maniche grandi aprte, come allóra le usavano le donne, e restano in uso nel vestimento delle nostre contadine oggidì.
  29. Loco. Per inespertezza del dialetto il Boccaccio usò la voce loco, che dinota costì per indicar quì.
  30. Jocate. Dovea dir joca, e non jocate, ma l’ingannò il veder che si dice divertiti, spassati.
  31. Adiscere. Altro latinismo che non pare abbia mai potuto esser parola nostra.
  32. Judice Barrillo. Giovanni Barile d’una nobile famiglia nostra venuta con gli Angioni, ed ascritta alla Piazza di Capuana fu grandissimo amico del Petrarca, e del Boccaccio, e fu quegli, che il Re Roberto mandò come suo Ambasciatore in Roma ad assistere alla coronazion Poetica del Petrarca.
  33. Scaccinopole. Nome favoloso d’un antico mago celebre tra’ Sorrentini al pari del Barliario de’ Salernitani.
  34. La Donna da pede rotto. L’ignoranza de’ copisti ha svisate queste parole. Deve leggersi la Madonna de Pedegrotta. Quella imagine esistente a pié della famosa Grotta di Pozzuoli onorata fin dal duodecimo secolo d’una Cappelluccia con un benefiziato, che la serviva, era andata in dimenticanza, allorché a tempi appunto di Giovanna I. se ne riaccese la devozione, e nel 1352. si terminò la costruzione d’una Chiesa, e d’una Canonica di Lateranensi, che la servono anche ora. Si cominciò adunque a giurar per essa: il che ora non si fa più, perché il popolo giura per la Madonna de lo Carmine, stante la devozione sommamente cresciuta verso questa altra imagine, che è nel quartiere popolare del Mercato.
  35. Picca. Voce tutta Siciliana, o Calabrese dinotante poco. Moltissimi idiotismi Siciliani ha intrusi in questa lettera il Boccaccio, come lu patre, lu puozziamo, eo, picca, tuorcia, cuosa etc.
  36. Se te chiace. Fino a cinque volte ha replicate in poche righe le frasi, se te piace, si vuoje tu etc. il Boccacio. Queste maniere gentili di dire le avevamo allora noi contratte da’ Francesi, che ci dominavano. Quella Nazione naturalmente obbligante mette il si vous plaiz a qualunque proposito, e fino ad un carnefice, che avesse ad impiccar taluno, gli direbbe: Monsieur il faut, que je vous pende, s’il vous plait.
  37. Cobille. Svisatuta della voce Toscana covelle, che non fu mai nostra: corrisponde al Latino aliquid.
  38. Chiazza nuostra. Per questa Piazza, o sia Sedile, che replicatamente si nomina, crediamo che abbia ad intendersi il nostro Sedile di Porto. Nel recinto di esso era il quartiere che allora dicevasi Loggia de’ Fiorentini, e l’antica loro Chiesa dedicata a S. Giovanni era poco discosta dalla Chiesa, e Convento de’ Domenicani di S. Pietro Martire. Oggi è distrutta, dopo che dalla generosità della famiglia de Medici fu fabricata quella che oggi esiste, ed è anche essa sotto l’invocazione di S. Giovanni. In quel quartiere di Porto abitò il Boccaccio. Il Petrarca avea alloggiato dentro lo stesso Convento di S. Pietro Martire.
  39. Stà trista. È maniera nostra di dire per dinotare lo star gravemente infermo, e vicino a morire. Qui pare che indichi lo star morta per amore.
  40. Anche il giorno di questa data pare che abbia due allusioni di scherzo, l'uno sul nome d’Aniello, o Agnello, che a sentirlo dar ad uomo ragionevole, per chi non vi è abituato, dà tanto da ridere quanto se si sentisse dare il nome d’altro animal bruto. L'altro è, che questo Santo è particolarmente tutelare delle donne gravide, e de’ bambini nati, acciocchè sian liberati dalla gobba.
  41. Jannetta. È così chiaro, che la lettera è scritta a nome d’un uomo, e non già d’una donna, che non può dubitarsi dell’error de’ copisti, giacchè replicatamente si dice io mediemo, e se fosse stato lo scrivente donna, dovea dirli io medema: si fa dal Boccaccio dire allo scrivente figlio meo va alla scuola, cosa che non potea dirsi ad una donna. E pure il Biscioni erudito diligentissimo usò tanta oscitanza nel pubblicar questa lettera, che fermamente la dice scritta a nome d’una gentildonna amica del Boccàccio, e del Bardi.
  42. Parise è cognome d’una famiglia nostra nobilissima, della quale trova menzione fin dal tempo delle Crociate nella persona di M. Roggiero di Parisi Signore di Castelluccio delli Schiavi, e della Pietra di Monte Corvino, che offrì servizio d’uomini d’arme in una Crociata intrapresa l’anno 1187. Oggi non è ascritta alle Piazze di Napoli, avendo lasciato di soggiornat nella Capitale; ma ciò non ne diminuisce punto la gloria, o la nobiltà.
  43. Quantunque questa Pistola non portò data di anno, la lettera, con cui il Boccaccio l’accompagnò, indirizzata a Francesco di Messer Alessandro de’ Bardi Mercatante Fiorentino abitante a Gaeta, publicata per la prima volta in un rarissimo libro itnitolato: Prose antiche di Dante, Petrarca, e Boccaccio, e di molti altri nobili, e virtuosi ingegni nuovamente raccolti (in Fiorenza appresso il Doni 1547. in 4.) si trova segnata: Di Napoli- alli XV. Maggio MCCCXLIX. In essa ecco quel che se ne dice. E perchè forse di questi così lieti riposi, cioè che ti allegrino, e non offendono, non sè costà fornito, come ti bisognerebbe, uno piccolo, e nondimeno leggieri, ma pure per una volta atto a potere dare luogo agli amari pensieri per ha presente lettera te ne mandiamo: il quale ne’ termini più atti e convenevoli ti preghiamo con quello animo leggilo, che noi per diporto di noi medesimi ti scriviamo.
  44. I fondamenti storici sui quali questo cronista pianta queste sue carote, sono l’aver veramente soggiornato, Virgilio lungo tempo in Napoli e l’averci composta la Georgica; l’essere stato da Augusto incaricato dell’educazione ed istruzione del giovane Marcello figlio della sua figlia, e dall’avo destinaro all’Impero, se immatura morte non l’avesse rapito; e l’essersi infine a gara pregiate le Città amiche, e le Colonie de’ Romani di dare gli onori delle loro magistrature non meno a questo giovane Marcello, che ai Cesari Cajo e Lucio per far piacere ad Augusto; come potrà leggersi ne’ Cenotafj Pisani dell’eruditissimo Cardinal Noris.
  45. La sconcia espressione di questo luogo non è tutta colpa del povero nostro cronista. Deriva da quell’oscurissimo, non men che famoso passo di Solino al lib. 11. in cui si legge: Parthenopem.. quam Augustus Neapolim esse maluit: passo, sul quale hanno i nostri eruditi sudato lungamente invano a trovarvi un senso ragionevole, senza avvedersi, che tutti i compilatori di grandi opere, di Lessici, di Trattati Universali inciampano in errori, e che gli attuali Enciclopedisti (che a parer nostro vaglion più di Solino) non han potuto evitare d’inciampare a dire, che Palermo era una città distrutta, e prender altri abbagli non minori. Questa impeccabilità degli antichi, che gratuitamente ci abbiam ficcata in capo, oh quanto inchiostro ci ha fatto malamente logorare! Che poi Angusto avesse contribuito a far rifare le nostre mura è un fatto, che rilevasi da una antica iscrizione rapportata da’ nostri crittori.
  46. Esiste ancor oggi un luogo nel Regno detto Castel Cicala: ma che fossesi questa mosca d’oro esistente nel Castel Capuano, e chi siano questi autori dal cronista citati, Alessandro, e Gervasio autore de’ Responsi Imperiali, meriterebbe esser ricercato dagli amatori delle cose nostre. Noi la crediamo qualche fibula d’oro antica, alla quale erasi data sì fatta figura, appartenente a ricco personaggio, e trovata scavandosi, che da’ nostri Re si conservava come pregevole monumento. L’uso di dar la figura di api, di mosche, o di cicale alle fibule, durato anche ne bassi tempi, si rileva dalla tomba di Chilperico disotterrata non è gran tempo nelle Fiandre, nella quale molti ornamenti d’oro in forma di api si trovarono, che oggi conservansi nel Museo del Re Crirtianissimo: e non è mancato un erudito Francese, che ha creduto, che i famosi Fleurs de Lis, che oggi, costituiscono la gloriosa, atme di que’ Sovrani, furono dapprima figure d’api, o di cicala, che malamente formate da rozzissimi artefici, e messe a rovescio hanno presa una strana figura di fiore poco per altro rassomigliante alla vera forma del giglio. Così va scherzando il tempo con l’uomo, e l’uomo colla sua posterità.
  47. Di questo Colossale Cavallo esiste anche ora la superba testa insieme con altre pregevoli antichità nel palazzo edificato a’ tempi di Ferdinando I. da Diomede Carafa Conte di Madaloni, oggi appartenente ai Principi di Colubrano. Credesi essere stato una statua
  48. Bartolomeo Chioccarello, che dopo il Toppi, e il Nicodemi distese un assai più accurato catalogo degli Illustri serittori nostri, parlando di questa Cronica fissa benissimo il tempo, in cui termina; ma sull’autore di essa non entra in veruna discussione critica e l’attribuisce ad un Giovanni Villani. Esiste oggi l’autografo Manoscritto di quest’opera del Chioccarelli, che la morte dell’autore seguita nella famosa peste del 1647. impedì di publicare, in potere del Sig. Duca della Torre Filomarini, dalla cui gentilezza ci è stato comunicato.
  49. Quest’opera divenuta rara a segno, che forse non altro esemplare ne esiste, che quello della scelta, e copiosa libreria del Marchese di Salza Berio, per effetto della gentilezza di lui, che ce l’ha comunicata, è venuta alla nostra conoscenza. E’ dedicata ad Onorato Gaetano Conte di Fondi, Gran Protonotario del Regno. E’ impressa in soglio piccolo di bellissima carta, e di assai bel carattere, ma con innumerabili errori d’impressione, arricchita di sampe in legno, curiosissime e nel sine vi si legge: Francisci Tuppi Parthenopei utriusque juris disertissimi, studiosissimique in vitam Æsopi sabulatoris lepidissimi philosophiq; clarissimi traductio materno sermone fidelissima, & in sabulas allegoriae cum exemplis antiquis modernisque finiunt feliciter. Impressa Neapoli sub Ferdinando Illustrissimo Sapientissimo atque Justissimo in Siciliæ Regno Triumphatore. Sub anno Domini MCCCCLXXXV. Die XIII mensis Februarii.
  50. Intorzata, gonfiata nel ventre.
  51. Derrassuno, scostano: oggi diremmo arrassano.
  52. Aboffato, gonfiato di vento.
  53. Il sopracitato Chioccarelli nel suo libro de’ nostri Illustri scrittori dà notizia di quest’opera del Tuppo. Ecco le sue parole: Æsopi quoque fabulas Tuppus is e Latina in Italicam maternam linguam vertit, de suo quoque adjiciens Tropologiam, Allegoriam Anagogem, atque exempla, seu exemplis confirmationem ex vetustis, ac recentioribus temporibus desumpta, que omnia excusa sunt Neapoli Anno 1475. apud eundem Sixtum Riessenger in fol.
  54. Ecco come comincia la Farsa del Sannazzaro.

    Fuggi, fuggi dolente,
    Non veder la tua gente - soggiogata,
    Non veder più Granata, - fuggi lasso;
    A che pur fermi il passo? - il Ciel ti caccia,
    Fortuna ti minaccia. - Ahi sventurato,
    Lassa correre il fato. - Un tempo avesti
    Tutto quel che volesti, - e con diletto
    Ti chiamasti Maumetto: - or ti bisogna
    Partir con tua vergogna...


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