ha una certa temperatura, e moderazione tralle sibilanti asprezze dell’Italiano, e de’ suoi dialetti Bolognese, Lombardo, Genovese, e le languide dolcezze del Francese. I suoni riescono più articolati per l’elisione di molte vocali, che lasciano così meglio spiccare le consonanti; niun dittongo chiuso, niuna gutturale, niun contorcimento di labbra per pronunziare turbano il parlare pieno, spazioso, sonoro. Dunque de’ Napolerani al pari, che de’ loro antenati, avrebbe cantato Orazio
Graiis ingenium, Graiis dedit ere rotundo Musa loqui....
Questa caratteristica è stata così sensibile a chiunque ha impreso da due secoli in quà a comporre in questo dialetto, che tutti l’hanno concordemente avvertita, e celebrata, come pregio suo particolare. Il Cortese lo definì un parlar majateco, e chiantuto con felicissima metafora, comparandolo a quelle piante o frutta polpute, e succulenti, che riempiono la bocca, e lusingano gratamente il palato.
Pocca, Dio grazia, avimmo tanto suono,
Tanta dorcezza dinto a ssì connutte etc.
cantò il Capasso. Tutti insomma hanno sentita, e contestata questa pienezza di suono. Ma più di quelle autorità, che potrebbero credersi non imparziali, lo dimostra la facilità e l’incredibile
naturale inclinazione de’ popoli, che usano questo dialetto, al poetare, ed al cantare. Il Napoletano, e il Pugliese, giacchè queste due nazioni parlano a un dipresso lo stesso dialetto (in differenza de’ Calabresi, e de’ Leccesi) pare che sempre poeteggi, o canti. Non vi è donna, che possa addormentar cul-
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