facondi tralle nazioni. Quel rapido culto cicaleccio de’ Toscani, quel joli cacquer de Francesi è ignoto ai nostri. Il parlar con felicità, e con copiosa vena di parole è sempre un indizio di molta dose di delicatezza di spirito, di scarsa sensibilità nel cuore. Le passioni non tormentando la mente, resta questa chiara, serena, tranquilla, e trova felicemente, e tramanda agli organi le parole, e le frasi. Ma il Napoletano, l’ente della natura, che forse ha i nervi più delicati, e la più pronta irritabilità nelle fibre, ne non è tocco da senſazioni, tace: se lo è, e sian queste o di sdegno, o di tenerezza, o di giubilo, o di mestizia, o di gusto, o di rammarico ( che ciò non fa gran differenza ), subito s’infiamma, fi commuove, e quasi si convelle. Allora entra in subitaneo desio di manisestar le ſue idee. Le parole se gli affollano, e fanno groppo sulla lingua. S’ajuta co’ gesti, co’ cenni, co moti. Ogni membro, ogni parte è in commozione, e vorebbe esprimere. Così senza esser facondo è eloquentissimo. Senza ben esprimersi si fa comprender appieno, e sovente intenerisce, compunge, persuade. In quello stato d’accensione, e di convulsione, in cui allora è il Napoletano, le più impensate metafore, i più arditi traslati se gli paran davanti, e ne fa suo profitto. Forma quindi un discorso, e una sintassi, che sembra quello de’ sacri Profeti, e degli orientali Poeti. Nell’impeto di propalar le sue senſazioni, malgrado che al Napoletano non manchi talento e vero genio, manca o non si presenta subito la parola. Quindi ha inventare le voci, chilleto, chelleta, qualisso, qualessa, non saccio
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