un sacro dovere, e una pur bella cosa il farci parer goffi al resto dell’Italia, e dell’Europa. Con quella stomacosa ortografia non venne a conseguirsi l’intento, che gli stranieri, leggendoci potessero subiro pronunziare i suoni come noi, giacchè quello è impossibile; ma ne seguì il contrario effetto di spaventar tutti, e fin gli stessi Napoletani dal leggere lo cose scritte sì fatta ortografia; perché a tutti parve non riconoscere sotto quelle svisate sembianze un dolce dialetto, e un non indegno figlio della favella Italiana, ma un qualche barbaro, e inusitato linguaggio. È cosa conosciutittima esservi anche ora infiniti Napoletani, che non avendovi l’occhio avvezzo, non sanno leggere Lo cunto de li cunte, e i poemi del Cortese, per solo effetto dell’ortografia, in cui sono scritti.
Il male cominciato da costoro in vece di diminuirsi andò crescendo ne’ susseguenti scrittori fino al Fasano, il quale lo portò all’eccesso. Nella sua magnifica edizione del Tasso entrò in un impegno strano di esprimere coll’ortografia tutte anche le più insensibili forze date alle consonanti tutte le elisioni delle vocali, tutti i raddolcimenti, o suoni incerti di sillabe, che l’uomo più grossolano del volgo nostro avrebbe fatti, se fusse slato obbligato a pronunziar que’ suoi versi. Ne risultò un così spaventevole accozzamento di consonanti raddoppiate, di apostrofe, di accenti circonflessi, e di lettere sovrabbondanti, che quali non restò parola, che paresse Italiana. Fu a segno, che resosi quasi non legibile, allorché quattordici anni dopo si ristampò, ne fu mutata l’ortografia, e ridotta a
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