mo, che l’onore fatto: da un Boccaccio al nostro dialetto sia tale e tanto, che rassomigli alla favolosa
preghiera di S. Gregorio per l’anima del dannato Trajano, e solo suffraghi a liberar dall’abominio il nostro dialetto, ed innalzarlo alle stelle.
Diremo adunque, che il Boccaccio dimorando in Napoli, mentre su di noi regnava Giovanna I. verso l’anno 1349. volle per piacevolezza scrivere a nome di Giannetto di Parise a Francesco de’ Bardi in quel volgar dialetto nostro del quale per effetto del suo lungo soggiorno quà, e di quello, che prima avea fatto in Sicilia; dove andò a studiar la lingua Greca, aveva apprese molte voci, e molte frasi. Ma siccome anche oggi avverrebbe a qualunque Toscano, che dimorando tra noi si volesse mettere a scriver in Napoletano (dialetto tanto difficile, che gli stessi nostri quasi mai non han saputo scrivere correttamente): avvenne, che egli ingannate dalle analogie commise innumerabili piccioli, errori sia nell’inflessione, che dette alle nostre voci caricandola soverchio, sia nell’aver travestite in Napoletano molte voci, e frasi non nostre, o finalmente nell’aver creduto doversi scostar sempre dal suo Toscano anche quando non si doveva. In oltre confuse le pronunzie de’ due dialetti Siciliano, e nostro, e volendo scrivere in caricatura sforzò soverchio i suoni delle parole. Nè si creda, che forse i Napoletani in quel tempo parlassero con quella caricatura, che egli usa in questa lettera, perchè oltre al confronto con altri scritti vicini a quel tempo de’ veri nazionali, ogni piccola pratica, che si abbia degli abbagli, in cui inciampano