Napoli mia!
Io che, trent’anni or sono, abitando il villaggio del Vomero, nell’ora del mio passeggio quotidiano, avevo sempre con me carta e matita, per segnare qualche idea che mi fosse venuta in mente, le cavai, un giorno, a notare un dialogo fra un soccavese dei più idioti e un senese dell’acqua più pura.
— ”C’é da pagà li parchetti a peso d’oro!” entrava a dire in quel momento un romano, terzo fra quei due.
Lì, sul Vomero, dove allora sorgeva il nuovo rione, erano venuti operai da ogni parte d’Italia, fra i quali quel toscano, che durava da un pezzo a disputare col napoletano, senza riuscire ad intenderlo e a farsi intendere.
Il napoletano diceva del trafoco o trafoche (il traforo) e precisamente di quelli della Ferrata Cumana e di Piedigrotta, di modo che il papone (il vapore) passava sott’’o trafoco a duie trafoche.
— Dio c…! — esclamava il senese — Non si sa che butti, com’è vera la morte!
— Chillo, ’o papone…
— Il papone?,… So che vi è il papa; ma il papone; no, davvero!
— No ’o papone!… ’o papone!…
— Il popone?
— Eh, sì, ’o papone…
— O dunque?
— Passa sott’’o trafoche… a duje trafoche…
— Tra foco?… Tra du’ fochi?… Il popone passa sotto e tra du’ fochi?… Ma che inventi? Tutto fiato da non capir niente…
— Tu che cciuccio ssì? ’O pa… ’o papore…
C’era da osservare lo sforzo che faceva il nostro povero soccavese, il quale, un po’ per intuizione, un po’ per reminiscenza, riusciva a trovare la desinenza giusta e mutava la storpiata parola papone in quella meno storpiata papore. Io