Del dialetto napoletano - Ferdinando Galliani (1789)/Della Sintassi

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DELLA SINTASSI.

S Ulla sintassi poco o nulla abbiam che dire, non distinguendosi dalla comune Italiana; nè altra è a parer nostro l’essenziale differenza tra i dialetti, e le lingue, se non che per quanto diverse, e appartenememente difficili possan parer le parole di due favelle, qualora la sintassi è la stessa, non mai si debbon riguardare come lingue diverse, ma l’uno si deve dir dialetto dell’altra. Se poi la sintassi è diversa, allora si dichiarano per lingue diverse, e dipinte quantunque abbiano o fratellanza, o derivazione l’una dall’altra. Or il Napoletano non ha punto diversità di sintassi dal comune italiano. Solo vi si osserva, che ama la corruzione più naturale: abborrisce dalle contorte costruzioni de’ periodi, che piacquero ai Latini, e che i dotti Italiani fecero ne’ secoli della rinascenza delle lettere entrar quali per forza nel sublime aulico letterato Italiano, e spezialmente nella poesia.

Merita anche riflessione, che non fono certamente i Napoletani nè i più loquaci, nè i più [p. 23 càgna] facondi tralle nazioni. Quel rapido culto cicaleccio de’ Toscani, quel joli cacquer de Francesi è ignoto ai nostri. Il parlar con felicità, e con copiosa vena di parole è sempre un indizio di molta dose di delicatezza di spirito, di scarsa sensibilità nel cuore. Le passioni non tormentando la mente, resta questa chiara, serena, tranquilla, e trova felicemente, e tramanda agli organi le parole, e le frasi. Ma il Napoletano, l’ente della natura, che forse ha i nervi più delicati, e la più pronta irritabilità nelle fibre, ne non è tocco da senſazioni, tace: se lo è, e sian queste o di sdegno, o di tenerezza, o di giubilo, o di mestizia, o di gusto, o di rammarico ( che ciò non fa gran differenza ), subito s’infiamma, fi commuove, e quasi si convelle. Allora entra in subitaneo desio di manisestar le ſue idee. Le parole se gli affollano, e fanno groppo sulla lingua. S’ajuta co’ gesti, co’ cenni, co moti. Ogni membro, ogni parte è in commozione, e vorebbe esprimere. Così senza esser facondo è eloquentissimo. Senza ben esprimersi si fa comprender appieno, e sovente intenerisce, compunge, persuade. In quello stato d’accensione, e di convulsione, in cui allora è il Napoletano, le più impensate metafore, i più arditi traslati se gli paran davanti, e ne fa suo profitto. Forma quindi un discorso, e una sintassi, che sembra quello de’ sacri Profeti, e degli orientali Poeti. Nell’impeto di propalar le sue senſazioni, malgrado che al Napoletano non manchi talento e vero genio, manca o non si presenta subito la parola. Quindi ha inventare le voci, chilleto, chelleta, qualisso, qualessa, non saccio [p. 24 càgna]che, comme se chiamma, camme s’addommanna, me faje favore, ed altre molte per non trattenerli in mezzo alla carriera del discorso, e della ragion turbata, ad andar rinvenendo il proprio, e giusto termine, che dovrebbe usare.

Frutto di quella della offuscante accensione è il supplemento, che fa ai nomi propri, di cui non fi sovviene in quell’istante. Vuol nominar un uomo con isdegno, e con disprezzo? lo chiama lo sì D. Cuorno. Una donna? la Sia Sgujnzia.

L’energiche imprecazioni, talvolta le abominevoli elevazioni accompagnano, e figurano in questo tumulto di pensieri, e di subitanee espressioni. Qual sintassi vuol aspettarsi allora? Furor verba ministrat. Ma se l’animo acceso da violente padroni del Napoletano, che prorompe in gesti, in parole, in imagini, non osserva rettoriche regole, non sinrassi non grammatica, non vocabolario talvolta, e tale l’effetto di scuotimento, che fa negli astanti, che gli elettrizza tutti a segno, che sacondia Toscana non v’è, che a tanto arrivi.