Teatro - Aniello Costagliola/Ombre a mare

NOTICE: Mixed italian-neapolitan. In general, italics are for theatrical indications and are given in italian and dialogs are mostly in neapolitan.

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Ombre a mare
NOVELLA IN UN ATTO
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LE PARTI:

Il Sopraintendente.
Il primo Governatore.
Il secondo Governatore.
Il Segretario.
Il Ragioniere.
Un Avvocato.
L'Economo.
Don Pellegrino.
Il guardiano Battista.
Il guardiano Ardia.
L'inserviente Zaccaria.
Il cieco Serafino Corona.
Il cieco Santino Spada.
Il cieco Arcà.
Il cieco Amitrano.
Il cieco « Sensitiva ».
Il cieco Salemme.
Altri diciassette ciechi.
Voci interne.


A Napoli. I giorni nostri.
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L'AMBIENTE



A Posillipo. Il cortile centrale di un ospizio di ciechi.
Nel fondo del cortile, un ampio verone, che ha l'apertura ad arco e la balaustra di brevi colonne di pietra grezza. Di là dal verone, sul fondo del cielo costellato, si disegnano le vette a sega del piccolo Appennino napoletno. Il paesaggio si avvia in un miracolo di plenilunio.
L'interno del cortile è un'ampia navata concava. Su le pareti laterali, in fuga verso il verone, si aprono le porte pesanti di quattro sale: due a destra, due a sinistra. Qualche porta è aperta. Qualche altra è socchiusa. Qualche altra è chiusa. Al sommo di ciascuna porta, dipinto su pietra lucida, è un numero romano. Su la parete di destra, la porta verso il fondo è segnata col numero I, e quella sul davanti col numero II; su la parete di sinistra, la porta del davanti reca il numero III, e quella del fondo il numero IV. A destra e a sinistra, tra porta e porta, l'imboccatura di due corridoi interni. Nel mezzo del cortile centrale, attaccata all'ultimo anello di una sottile catena di ferro, è una lanterna, pènsile, di forma quadrangolare e con le facce di vetro. La lanterna è a saliscendi; in alto, la catena attraversa il giro di una carrucola, e ha l'altra punta attaccata ad un piòlo, infisso nella parete di sinistra. Sul muro di faccia, a destra del verone, un enorme e annerito Crocefisso di legno. Davanti al Cristo scoppietta gli ultimi tremiti una lampada ad olio. Giù, perpendicolarmente alla croce, un inginocchiatoio. Nel cortile, sparsi, due o tre sgabelli di legno.
Vuoto e silenzio. La lanterna è spenta. La penombra invade l'ambiente.
Dal mare, ogni tanto, il lento gorgoglio dell'onda, negl'interstizi della scogliera.

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I.


(Il silenzio è interrotto dai rintocchi di un orologio vicino. È la seconda ora di una sera di maggio: le otto).


(L'orologio tace. E il silenzio incombe).

(Dall'interno dell'Asilo, le note dell'organo. Tremolanti voci femminili si accompagnano al suono del grave stromento: giù nella chiesetta del villaggio, le vecchie pinzochere intonano la « Canzonzina al Cuor di Maria »).

Il canto delle vecchie.

« Ti adoro ogni momento,
o vivo Pan del Ciel, nel Sacramento!
Lodata sempre sia
l'Immacolata Vergine Maria! »


(Il canto cessa, qualche istante. Squillano argentinamente i campanelli. È l'elevazione dell'Ostia. Poi, la sacra nenia si rinnova, con più romoroso fervore).


Il canto delle vecchie.

« Gesù! Cuor di Maria!
Vi prego benedir l'anima mia!»


(Il guardiano Battista, nella sua divisa verdognola, filettata di rosso agli orli, luccicante di grossi bottoni dorati e col berretto di sghembo, vien dal cortile di sinistra. Stacca la catena della lanterna dal piòlo. La lanterna discende. Dopo di averla assicurata nuovamente al piòlo, egli ne accende la fiamma interna con
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un fiammifero di legno. Poi, la fa risalire, e riattacca la catena alla parete. Durante il suo ufficio, il guardiano sbuffa la sua noia).


(In tanto, la nenia religiosa si estingue, lentamente. Un silenzio).


II.


(Dal cortile di destra sbuca don Pellegrino, un prete grave e rubicondo. Veste a nera sottana. Non ha il mantello. Sul cocuzzolo, la berretta poligonale).


Battista (umilmente, cavandosi il berretto:) — Bacio le mani, padre.
Don Pellegrino. — Benedetto, figlio!


(Il prete va nel fondo, si toglie la berretta, si piega un po' su l'inginocchiatoio, biascica una breve orazione incomprensibile; poi, si raddrizza, si rimette la berretta, estrae da una saccoccia della sottana una scatola di metallo bianco, la apre, annusa, viene sul davanti).


Don Pellegrino. — Novità?
Il guardiano Battista. — Appiccio 'e llampe p''e ccammarate. È 'a nuvità 'e tutte 'e ssere.
Don Pellerino. — A ciascuno il suo ufficio, figlio benedetto. E tutto a gloria del Signore! Ogni uomo deve portare la sua pietruzza all'edificio della Vita.
Il guardiano Battista. — Ma io ce porto vàsele, padre spirituale mio! Sti cecate — buono ce tocca! — nun mme dànno nu minuto 'e rèquie! Nun tèneno uocchie, ma t''a fanno 'int'a ll'uocchie! Ve rammentate, ll'ata matina?
Don Pellerino (sospira e scuote il capo:) — Eh!
Il guardiano Battista. — Tengo ancora nu mbombó ncopp'a ll'uocchio deritto (si tocca la fronte). Nu rebellione, pecché 'o refettorio è scarzo. Se dice: uocchio ca nun vede, core ca nun desidera. Ma 'e cecate vonno mangià buono.
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Don Pellegrino. — Ingrati! Latte e caffè ogni mattina. Colezione, a mezzogiorno. A refettorio, due piatti, pane e frutta. E che vonno cchiù, sti sfurcate?
Il guardiano Battista. — Dice ca 'o Guverno passato 'e trattava comme a tanta figlie.
Don Pellegrino. — E se so' viste gli effetti di questa paternità! 'E rendite so' scese. Il bilancio è in deficit. Il disastro picchiava alle porte dell'Ospizio. E si nun fosse stato pe me, che ho consigliato serie economie al nuovo Governo, va trova, a quest'ora, sti cecate e sti vvicchiarielle addó sarrìeno iute a cadé!
Il guardiano Battista. — E nuie, poveri criste? E vuie, ca state perdenno 'a salute cca dinte? Mo fa ll'anno, quanno venìsteve cca, stìveve comm'a na vaccina...
Don Pellerino. — Economia: suprema lex! E addó vulive fa' economie? Ncopp''a Chiesa? Sul pane dello spirito?! Un sacrilegio! E una rovina per l'educazione dei ricoverati! E po', la Chiesa vive anche con l'obolo dei fedeli del rione...
Il guardiano Battista. — Giusto!
Don Pellegrino. — ... Sull'Amministrazione? E se ponno levà 'e spese d'ufficio al Governo, 'a carrozza al Sopraintendente, i gettoni al Segretario? Se ponno licenzià gli avvocati, 'o miedeco, 'o ragioniere, l'economo! Se po' taglià 'o stipendio agl'impiegati? Sarebbe un delitto!
Il guardiano Battista. — E ca chesto me mancarrìa! Cca stammo a tiéneme ca te tengo!
Don Pellegrino. — Dunque? Economia sul vitto, sull'alloggio, sul vestiario. Carne? Na volta 'a settimana, basta. Vino? Se ne po fa' a meno, nei giorni non festivi. Dolci, ogni domenica? E pecché? Nu vestito ogni anno, nu paio 'e scarpe ogni sei mesi, cambiamento 'e biancheria ogni cinque giorni? Troppo luso, cari miei! E chesta è casa 'e carità. Stringiamo i freni E ripariamo al deficit. (Annusando tabacco:) A gloria del Signore!


(Un breve silenzio).
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Don Pellegrino. — La sessione è finita? Il guardiano Battista. — Nun ancòra. 'A discussione piglia a luongo.


III.


(Dal cortile di destra sopraggiunge Zaccaria. È l'umile inserviente dell'Asilo. Un vecchietto basso e pingue. Veste l'abito verdognolo, come quello dei ricoverati. Ha il volto pelato, gli occhi piccoli, la capigliatura grigiastra, la fronte depressa. Erra sul suo volto, perennemente, il sorriso dell'ebete. La parola gli è fatta penosa dalla balbuzie. Quanno parla, egli si muove tutto, come invaso da un tic nervoso irresistibile. Da una saccoccia della sua giacca spuntano le cannucce lunghe e incurvate di due pipe di creta. Ha in mano un piccolo involto di carta grigia).


L'inserviente Zaccaria (al prete, sberrettandosi, devotamente:) — Bacio le mani, padre e superió.
Don Pellegrino. — Benedetto! (Gli porge la mano destra, e se la lascia baciare).
L'inserviente Zaccaria al guardiano, consegnandoli le due pipe:) — 'E pippe: dui' centè l'una. (E porgendogli il piccolo cartoccio:) Don Rusario nun ne teneva spuntatura. Mm'ha dato chesto. Dice ca fa scatarrà.
Il guardiano Battista. — Scatarrà?... Comme s'intende? (Apre un angolo del piccolo cartoccio, e osserva; poi, adirandosi:) Chesto è liccese!
Don Pellegrino (prorompe in una risata sonora). — Ah ah ah ah!...
Il guardiano Battista. — Che schiuvazione, cu chisto! (A Zaccaria:) Io t'aggio pregato: spuntatura; e tu mme puorte liccese?! Che fumo c''o naso, io?!


(Zaccaria lo guarda, spalluccia e sorride).


Il guardiano Battista (di scatto:) — E famme 'a
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resella 'n faccia a'... (Al prete, contenendosi:) Reverè, mille perdòne!
Don Pellerino (ha continuato a ridere. Ora, con un sospiro:) — Volontà di Dio! (Al guardiano:) Dà a me stu tabacco. (Serba l'involtino in una saccoccia della sottana; e da questa cava alcune monete, che consegna all'inserviente) E sta' attento, Zaccaria. Torna add''o tabaccaio: e digli ca te desse tabacco per la bocca, nun già tabacco p''o naso. Hai capito?
L'inserviente Zaccaria (ripete automaticamente:) — Per la bocca... (Avviandosi verso il corridoio donde è venuto:) Bacio le mani, padre e superió.
Don Pellegrino. — Torna subito, ca se chiude 'a porteria.
L'inserviente Zaccaria (esce ripetendo, come per fissarle bene nella sua mente, le parole del sacerdote:) — Per la bocca... Tabacco per la bocca...
Don Pellegrino (con la voce stanca di chi ha troppo riso, passandosi la pezzuola su gli occhi:) — Che tipo!
Il guardiano Battista. — Ce vo' 'a paciénza 'e Giobbe, padre spirituale mio! Già, chillo è don Rusario 'o tabaccaro, ca se piglio 'o poco 'e pusìlleco! (Dopo di aver soffiato un po' nelle cannucce delle due pipe, premendo la palma della mano destra sul cavo di esse, le serba nella saccoccia interna della sua giacca). E cheste so' n'ati doi' pippe nove! Vedimmo si fanno 'o gioco 'e bussilotte pure cu cheste!
Don Pellegrino. — Come? come?
Il guardiano Battista. — So' ccose nove! Cca s'arrobba senz'uocchie!
Don Pellegrino. — Si ruba?!
Il guardiano Battista. — Io tengo nu suspetto cu Saggese. 'O ncucciaie ll'ata notte, là, nnanz''o fenestone (indica il verone). Fumava 'a pippa.
Don Pellegrino. — Di notte?! A che ora?
Il guardiano Battista. — Puteva essere mezzanotte a passà.
Don Pellegrino (d'un tono di severità:) — E badateci, figlio benedetto! Un cieco... a quell'ora... non si sa
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mai!... 'O parapetto è basso. 'A finestra sporge a mare, e non ha imposte. La scogliera non è ancora finita. E poi, la disciplina!... Nu ricoverato ca se mette a fumà dopo 'o silenzio! Di questo passo, si va verso l'anarchia!... Così pure, c'è Santino Spada, che ha la manìa 'e sunà 'o clarino, di notte.
Il guardiano Battista. — Tene 'o permesso d'o Soprintendente.
Don Pellegrino. — Fino a nu certo punto!
Il guardiano Battista. — Facìtele vuie n'avvertimento, mo che tornano da 'o refettorio. Pe me intanto, cu Saggese nun ce voglio avé che ce fa'! Chillo è nu tipo ca nun mme capàcita. Pare comme si tenesse 'a nevrastenìa.
Don Pellegrino (più nel sospiro che nelle parole:) — Così è!
Il guardiano Battista. — Aiere a notte fece revutà 'a « siconda ». Che sa' che s'avette ' sunnà, se menaie da 'o lietto, e se iette a piantà nnante 'o letticciullo 'e Serrafino. Se lamentava, comm'a uno ca tene 'affanno. E teneva ll'uocchie spaparanzate, accussì. È appena nu mese ca è stato ammesso, e già nun avimmo cchiù che passà! (Una pausa). Ha da essere sunnambulo, credo.
Don Pellegrino (concentrato in un pensiero lugubre:) — Chi può mai scrutare i segreti della Provvidenza? Fortunato Saggese non nacque cieco.
Il guardiano Battista. — È ovè?
Don Pellegrino. — La cateratta, caro mio! Saggese è malato nel corpo e nello spirito. Acqua tranquilla alla superficie; ma sotto... sotto ce sta 'a tempesta. Osservalo bene. Parla poco; e si tu lle parle, o nun te risponne, o tremma e se sperde. Cerca la solitudine; e intanto ha paura 'e sta' sulo. Non vedi come si attacca a Serafino?
Il guardiano Battista. — 'A fune e 'o campaniello!
Don Pellegrino. — ...Serafino è comme si fosse l'angelo e 'o bastone di quel disgraziato. Con gli altri, niente: nè parola, nè comunella. (Pensoso:) Eh! Nel
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passato di quel cieco ci deve essere qualche mistero... Qualche trascorso giovanile... chi sa!... qualche rimorso...
Il guardiano Battista. — Dicite esatto: è nu mistero.
Don Pellegrino. — A proposito: 'o Segretario mm'ha dato sta lettera, pe Serafino. (Mostra una busta gialla, che ripone in saccoccia). Viene dall'isola di Santo Stefano. È 'o padre, che gli scrive.
Il guardiano Battista. — N'ato quadro spietato! 'A mamma accisa..., 'o pate n'galera... Ah, Signó!


IV.


(Attraversano il cortile, uscendo dal corridoio di sinistra e dirigendosi verso quello di destra, sette signori. Uno di essi veste un lungo soprabito nero, e ha la tuba lucida, piantata sul cocuzzolo; si appoggia a un bastone d'ebano, elegantissimo, e procede gravemente. È il Sopraintendente dell'Asilo. Lo circondano, ossequiosi, tre impiegati della pia casa: il Segretario, il Ragionere, un Avvocato: tre tipi che non hanno connotati degni di rilievo, tranne quello della devozione illimitata al Sopraintendente. Segue la comitiva un vecchietto, che ha il naso arrossato, l'andatura saltellante, la vestitura attillata, e il capo chiuso entro una berretta di velluto nero, con fili d'argento: è l'Economo, il quale ha la sua dimora nell'ospizio. Due altri gentiluomini — il secondo e il terzo governatore — vengono, ultimi, a braccetto, fumando la sigaretta).


(La comitiva procede, vociferando. Si distingue quache parola).


Il Segretario. — Ma le pare, Eccellenza!
Il Sopraintendente (grave:) — È in ballo il principio di autorità!
Il Ragioniere. — Giustissimo!
L'Avvocato. — E la legge sulle Opere pie?
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Il Sopraintendente. — Sarebbe una enormità!
Gli altri della comitiva (approvando, confusamente:) — Già! già — Come no! — Così è!


(La comitiva si sofferma al centro del cortile).
(Il guardiano si sberretta e s'inchina).

(Don Pellegrino si accosta al gruppo. È accolto con cordialità espansiva. Si ode qualche voce).


— Don Pellegrino!
— Don Pellegrino nostro!
— Sempre come una Pasqua!
— Una perla, don Pellegrino!

Don Pellegrino. (confuso e sorridente:) — Bontà loro! Bontà loro! Servo umilissimo del Signore!
Il Sopraintendente (al sacerdote:) — Il Consiglio di Prefettura ha approvato il « consuntivo ». Il signor Prefetto encomia il nostro governo, per le sensibili economie fatte sui diversi « capitoli ». Quest'anno, niente ammissioni! E niente sussidî e spese di beneficenza! L'Amministrazione della lesina! (Emettendo un profondo sospiro di rassegnazione:) Una necessità! (Breve pausa). Approvata anche la proposta per una gratifica ai nostri solerti impiegati. Don Pellegrì, il mandato per voi è in Segreteria.
Don Pellegrino. — Troppo buono, Commendatore!
Il Sopraintendente. — Niente bontà! (Avviandosi verso il corridoio di destra, seguìto dagli altri:) È il premio dovuto a tutti quanti voi, miei preziosissimi cooperatori.
Gli altri della comitiva. — Dovere! — Il nostro dovere! — La sua bontà! (Così, vociferando, la comitiva scompare nel corridoio di destra. Don Pellegrino la segue. All'imboccatura del corridoio, l'Economo si sofferma, e saluta, toccandosi il berretto. Poi, ritorna verso il guardiano).
L'Economo (felice, stropicciandosi le mani:) — Raccogliamo anche noi le briciole della mensa dei poveri!
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Il guardiano Battista. — E pe nuie, signor ecò!
L'Economo (in tono di considerazione paterna:) — Ce ne sarà anche per voi, e per tutti quelli che lavorano la vigna del Signore. Lascia fare. Lascia fare. (Sempre stropicciandosi le mani, sparisce nel corridoio di sinistra).
Il guardiano Battista (lo segue, borbottando:) — Eh! lascia fare! (Esce).


(Vuoto e silenzio).


V.


Nel corridoio di destra, il cianciar sommesso di una moltitudine, che si avanza verso il cortile centrale. Un mormorìo, or lento or vivace, su la cadenza uniforme del passo di una soldatesca. Più la moltitudine procede, più il mormorio, or lento or vivace, su la cadenza uniforme del passo di una soldatesca. Più la moltitudine procede, più il mormorio cresce, e più monotona e pesante si fa la cadenza del passo. Qualche risatina. Qualche colpetto di tosse. Qualche voce distinta).


Una voce (alta e stizzosa:) — E 'mpàrete 'a geografia!


(Un coro di risate. Qualche urlo di scherno).


Un'altra voce (d'un tono di severità militaresca:) — Silenzio!


(Il clamore si estingue in un brusìo prolungato. Un silenzio).

(Appare il guardiano Ardia: un atleta duro nello
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sguardo e nel gesto. Ha i baffi ispidi e folti: neri. Indossa una divisa simile a quella di Battista).


(Ardia guida la moltitudine dei ricoverati. Son ventiquattro ciechi, e procedono su due righe, a coppie. Qualcuno ha il braccio destro teso, e appoggia la mano su la spalla del compagno che gli è dinanzi; qualche altro quasi si accascia sul compagno che gli sta da canto; qualche altro, ancòra, avanza con le braccia protese lungo il corpo e la faccia all'insù; qualche altro, in fine, ha l'andatura stanca, il capo basso, le braccia in sole sul petto) ([1]).
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Al terzo posto della duplice riga si accoppiano il cieco albino Serafino Corona e Fortunato Saggese) ([2]).


(Ora, vanno un po' in disordine i ciechi: quale cammina sveltamente, quale con lentezza triste, quale si arresta, a tratti, e poi si lascia trascinare dal compagno che a lui si accoppia, o spingere da quello che lo segue).

(La moltitudine perviene, silenziosa, al centro del cortile).


Ardia (martellando la parola, comanda:) — « A-ttentì!». (I ciechi stanno diritti e immobili).
Ardia. — « Fianco destr! Destr! ».


(Simultaneamente, i ciechi compiono mezzo giro su se stessi, a destra, e stanno impettiti, su due righe, di dodici persone ciascuna. Ogni cieco si colloca, così, alle spalle di colui o dinanzi a colui col quale si accoppiava.
Fortunato càpita alle spalle di Serafino. Egli distende e preme la mano sul dorso del suo compagno. Costui stringe la sua mano destra sul petto, sotto la giacca; e ogni tanto quella mano appare, e in essa una rosa di maggio, còlta di recente. Il cieco albino aspira furtivamente il profumo della rosa, e poi questa nasconde, pavido di sorpresa, sotto la giacca).
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Ardia. — « Ri-posó! ».


(La moltitudine si sbanda. Ma Fortunato non si stacca da Serafino).


Voci della moltitudine. — Ce sta! — Ce sta! — Nun ce sta!
Santino (rapido, movendosi tutto, al cieco Amitrano:) — Vuó fa' i' na scummessa?
Amitrano. — Scummettimmo!
Santino. — Io dico ca ce sta.
Amitrano. — E io dico ca nun ce sta.


(La turba si accalca presso il verone, come attratta da avidità intensa. Fortunato e Serafino si appartano, sul davanti, nell'angolo di sinistra. E Serafino porta alle nari e poi nasconde la sua rosa di maggio).

(Il guardiano Ardia siede a uno sgabello, nell'angolo di destra del davanti: mette gli occhiali, e si immerge nell'esame di alcune bollette del Lotto).


Sensitiva (è alla balaustra: passa le mani sul davanzale, e invoca, d'un tono accorante, nel silenzio della compagnia:) — Luna, lu'?...


(Rispondono, sommesse e sospirose, poche voci della moltitudine).


Voci della moltitudine. — Luna, lu'?... — Ce sta? — Ce sta?
Santino (sempre vivace e romoroso:) — Arcà?
Arcà (senza muoversi:) — Che?
Santino. — Sentimmo che ne dice Arcà. Arcà, ce sta 'a luna?
Arcà (dopo una brevissima meditazione:) — Aspetta.


(I ciechi si allontanano dal verone e si aggruppano in semicerchio intorno al loro decano).
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(Un silenzio).


(Sul mare alto bruciano i fuochi di una barca peschereccia. Il bagliore si riflette e trema nell'onda).


Arcà (contando, l'indice della mano sinistra sulle dita della mano destra:) — Luna nova... Primmo quarto... Luna chiena... Ogge n'avimmo?
Santino. — Dicessette.
Amitrano. — È viernarì. E n'avimmo dicessette.
Arcà (ripete mentalmente in calcolo su le dita. Poi, spiegando il pollice, l'indice e il medio della mano destra sul petto:) — Doie... Nove... Dicessette. (Accompagnando le parole con un cenno del capo:) Ce sta 'a luna. È luna chiena.
Santino (dispettoso, al cieco montanaro:) — Posa 'a scummessa! A luna ce sta!
Voci della moltitudine (esultanti:) — Ce sta! Ce sta! Ce sta!
Amitrano (rude, al vecchio Arcà:) — E che ne saie, tu!
Arcà (semplicemente:) — Ogge fanno sìdece iuorne, fuie luna nova. Accussì dicette 'o padre e maestro. E 'a luna se cagna ogne sette otto iuorne. Conta. Giovedì: doie: luna nova. Giovedì: nove: primo quarto. Viernarì: dicessette: luna chiena.
Santino. — E chesta è matematica, sa'!
Amitrano (come estatico, al vecchio Arcà:) — E po'?!...
Voci della moltitudine. — E po'?... E po?... (L'ansia è su tutti i volti).


(Salemme, il deforme, solleva lentamente la testa verso la voce di Arcà).


Arcà. — E po', ll'urdemo quarto. E po' n'ata vota, luna nova.
Santino. E 'a luna nova fa luce cchiù assaie!
Arcà. — 'A luna nova nun esce.
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La moltitudine appare stranamente impressionata).


Qualche voce. — Nun esce? — È nova, e nun esce?!
Arcà. — Dice 'o padre e maestro ca quanno 'a luna fa tuletta s'annasconne.
Santino (di scatto, ridendo:) — Bbummà!... Arcà, nun di' sciucchezze!


(Un coro sguaiato di beffe).


Voci della moltitudine. — Uh! Uh! — Arcà! — 'A luna fa tuletta! — È na sposa, 'a luna! — Arcà! Uh! Uh!


(Il clamore si diffonde nella turba, rapidamente. Arcà non si muove).


Ardia (senza interrompere la sua meditazione, ammonendo:) Silenzio!


(Ma i clamori continuano, fin quando all'imboccatura del corridoio di destra non appare Don Pellegrino).


VI.


Don Pellegrino (imperioso:) — Ehi!


(La turba tace, e si compone. Il guardiano Ardia nasconde le bollette; poi si alza e si accosta al sacerdote con premura).


Don Pellegrino (nota le mosse del guardiano, e scrolla il capo, in atto di rimprovero. Poi, scommessamente:) — Ma insomma, Ardia, qui si fa baccano; 'e vuie penzate a studià 'a martingana 'e a tripla?
Ardia (un po' mortificato:) — E riposo, reverè.
Don Pellegrino. — Nei lìmiti, caro Ardia! Badiamo ai limiti! (Alla turba, elevando il tono della voce:) E così? Perchè tanto chiasso?
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Santino. — E chillo, Arcà, nun sape niente, e vo' fa' 'o duttore! Dice ca, quanno è luna nova, 'a luna fa tuletta e s'annasconne.
Don Pellegrino. — E dice bene. La luna, quanno si rinnova, non si vede. (Si avvicina al verone).


(Un mormorio di sorpresa e di consenso, nella moltitudine).


Don Pellegrino. — Quanno c'è tutta la luna, come stasera, è luna piena.


(I ciechi circondano il sacerdote, intenti. Ma Fortunato non si stacca da Serafino).


Don Pellegrino (contempla il paesaggio plenilunare, e sospira beatamente:) — Aaah! Sia lodato Iddio!
Sensitiva. — Nuvole nun ce ne stanno. 'O parapietto sta asciutto manco ll'esca.
Amitrano. — Non fa friddo, stasera.
Santino. — 'O siente, 'o mare?


(Tutte le teste si piegano verso il mare. Qualche fronte si raggrinza nello spasimo della sensazione. L'onda gorgoglia).
Santino. — 'O siente? Fa comme fanno 'e vvicchiarelle, abbascio 'a chiesa, quanno diceno, sottalengua, 'e pposte 'e rusario.
Qualche voce. — 'O siente? — 'O mare!... — 'O siente?...


(Un silenzio).

(I fuochi della barca peschereccia si fanno più vivi e vicini, e rosseggiano, sotto la luna. Lontano, un'altra barca solca l'onda, e scompare. Dalle due barche i pescatori si scambiano il saluto alla voce).


Voci dal mare (festosamente:) — Ohé! A Surrientóooo...!
Altre voci dal mare. — Santa Lucia! Ohéeee!
Arcà (come un rimpianto, sospira a pena:) — Santa Lucia!
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Santino. — Vanno a Surriento. Sta luntano Surriento?
Qualche voce. — Luntano... luntano...
Santino — E che fanno, a chest'ora?
Don Pellegrino (ritornando al centro del cortile, circondato dalla moltitudine:) — Vanno alla pesca, di notte. E fanno una grande fiammata sulle barche, per guardare in fondo all'acqua. E sono armati di lance. E lavorano tutta la notte, i pescatori.
Amitrano. — Tutta 'a nuttata?
Sensitiva. — Fino a quanno esce 'o sole?
Santino. — E quanno dormono?
Don Pellegrino. — Riposano quando c'è il sole; e anche nelle barche riposano. Una vita di stenti e di pericoli. (In un sospiro:) Eh! Ognuno deve rassegnarsi a portare la sua croce. E più la croce è pesante, più colui che la porta avrà premio. I poveri di corpo e di spirito saranno gli eletti. Ricordate le parole di Gesù? « Egli è più agevole che un cammello passi la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno del Padre mio ».


(Un silenzio. Qualche cieco scrolla il capo, dubbiosamente).
(Don Pellegrino esce dalla schiera e si accosta al guardiano, il quale gli offre la sua tabacchiera. Il prete annusa e sorride. E s'indugia con lui, in un colloquio di gesti).

(Serafino porta alle nari la sua rosa di maggio).


Santino (che è presso il cieco albino, attratto dalla fraganza, stende la mano verso la rosa, e grida, in uno scatto, sorpreso e compiaciuto:) — Na rosa 'e maggio! Chi tene na rosa 'e maggio?
Voci della moltitudine. — Na rosa! Na rosa 'e maggio!


(Come sorpreso in colpa, Serafino cerca di nascondere la rosa; ma Santino cerca di nascondere la rosa; ma Santino non gliene dà il tempo, e gli afferra il braccio).
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Serafino (affannoso e supplichevole:) — No!... No!... No!... (Fa sforzi per liberare il suo braccio; ma Santino, più forte e sicuro, gli strappa la rosa. E questa si sfronda, e i suoi petali si spargono a terra)..


(La moltitudine si addensa intorno a Santino, e calpesta i petali sparsi).


Santino (agitando in aria il calice vuoto, sghignazza e irride, in tono di cantilena:)

Serrafino teneva na rosa,
e 'a teneva astipata, gelosa...
Neh, pecché s''a teneva annascosa?...
(Grave, come rivelando uno scandaloso secreto:)
Serrafino teneva na sposa!...


(L'improvvisazione satirica è accolta da un coro di risate e di urli).


Voci della moltitudine (beffarde e insolenti:) ― Uh! Uh! — Serrafino teneva na sposa! — Uh! Uh!
Don Pellegrino (dominando il clamore con la voce:) — Santino!


(Un silenzio. Il piccolo albino appare come annichilito).


Don Pellegrino (togliendo di mano a Santino il calice vuoto:) — Chi ha colta questa rosa!


(Nessuno risponde).

(Serafino piega il capo e le braccia, come rassegnato al rimprovero e al rossore).
Don Pellegrino (facendo girare il calice fra le sue dita, al guardiano:) — Neh, Ardì
Ardia. — Padre?
Don Pellegrino. — Manco 'e rrose stanno cuiete, cca dinto!
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Ardia (alquanto indignato:) — Io tengo ll'uocchie d''a mosca, e manco ce pozzo! Vuó vedé ca cca dinto 'o cecato so' io?
Don Pellegrino (con severità e sorpresa:) — Tu, Serafino?! (Serafino tace, trepidante).


Don Pellegrino. — Dove l'hai colta?
Serafino (balbetta:) — Là... Fore 'a terrazza.
Don Pellegrino (preoccupato dalle allusioni di Santino:) — E per chi l'hai colta?
Santino (insinuante:) — P''a sposa.


(Mortificatissimo, l'albino ha un fremito per tutto il corpo).


Don Pellegrino. — Silenzio! (Prudentemente, come a distogliere la moltitudine, sorride, e soggiunge, d'un tono affettuoso:) E sia. Per la sua sposa. Per la sposa di tutti quanti noi. È 'o mese mariano. E non è Maria la sposa nostra? Questa rosa Serafino voleva offrirla alla Madonna. E voi l'avete calpestata!


(La moltitudine appare scossa e pentita).


Sensitiva. — È stato Santino.
Don Pellegrino. — Di' Serafino: è alla Madonna che volevi offrire la tua rosa?
Serafino (semplicemente:) — No. A mamma mia.


(Fortunato sussulta, e ritrae la mano di su la spalla dell'albino).


Serafino. — Fanno ogge diece anne ca murette mammà. E se chiammava Rosa... (Reprime un singhiozzo. Tace).


(Un fremito di pietà pervade la moltitudine).
Santino (alle spalle di Serafino, contrito:) — Io nun 'o ssapevo. Nun ll'aggio fatto apposta.
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(Don Pellegrino si passa la pezzuola su gli occhi).


(Un silenzio).

(L'orologio batte l'ora: le otto e mezza).
Sensitiva (in una cadenza eguale e triste:) — Una... Doie... Tre... Quatto... Cinche... Sei... Sette... Otto... (Poi, mutando tono, come il suono muta:) Uno... Doie... So' l'otto e meza.
Don Pellegrino (subito, ravvivandosi:) — È l'ora del riposo. Andiamo, via: la preghiera, e poi a letto. E a tutti raccomando, ancòra una volta, di rispettare il silenzio. La notte è fatta per dormire: e non per cucire, come fa Arcà; nun pe sunà 'o clarino, come fa Santino; (sottolineando le parole e guardando Fortunato:) e nun pe piglià aria e fumà, come fa qualche altro.


(Fortunato scrolla il capo, tristemente).
Arcà. — Quanno nun tengo suonno, cóso. Che ce sta 'e male?
Santino. — E io sòno. Tengo 'o permesso d''o Soprintendente.
Don Pellegrino. — Ripeto: la notte è fatta per dormire. Si lavora col sole (Una pausa brevissima). Su, via: l'orazione della sera. Ringraziamo il Signore di averci concesso un'altra giornata di vita.


(Tutti i ciechi si dispongono, in ginocchio, intorno al sacerdote, e incrociano le braccia religiosamente. Il guardiano Ardia si sberretta, e si curva appena. Don Pellegrino sta ritto nella turba prona, la berretta in mano, gli occhi all'insù).
La moltitudine (in unisona cantilena corale:)

Pater noster, qui es in Coelo,
scenda a noi la Tua clemenza!
Dà coraggio e resistenza
a chi guida e sol non ha!
...a chi guida e sol non ha!...

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Don Pellegrino (rapidamente e con poca voce:) — « Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto! Sicut erat in principio, et nunc, et semper, et in Saecula saeculorum »...
La moltitudine. — « Amen »! (E poi, con crescente fervore:)

— Pater noster! Della vita
ci togliesti il sommo bene;
ma son gioie anche le pene,
se lenite dal Tuo amor!
.... se lenite dal tuo amor!

Don Pellegrino. — « Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto! Sicut erat in principio, et nunc, et semper, et in saecula saeculorum »...
La moltitudine. — « Amen »! (E poi, con voce grande:)

Di Tua grazia senza il lume
noi sperduti ognora andremo:
come barca senza remo
va col vento in mezzo al mar.
Come barca senza remo
va col vento in mezzo al mar!

Don Pellegrino. — « Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto! Sicut erat in principio, et nunc, et semper, et in saecula saeculorum »...
La moltitudine. — « Amen »! (I ciechi si levano:)
Voci della moltitudine (confusamente:) — Bacio le mani, padre! Bacio le mani!
Don Pellegrino. — Benedetti! Benedetti!
Ardia. — Avanti! Attenti!


(I ciechi si dividono in gruppi, di sei persone ciascuno; e, guidati da Ardia fin la sua soglia, entrano nelle varie camere. Un gruppo, nel quale sono Arcà e Sensitiva, entra nella camera segnata col numero I; un altro gruppo, nel quale sono Amitrano e Santino, entra nella camera segnata col numero IV; un terzo gruppo, nel quale è Salemme, il deforme, entra nella camera segnata col numero III; l'ultimo gruppo, nel quale sono Fortunato e Serafino, è per entrare nella camera segnata col numero II).
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Don Pellegrino. — Aspetta, Serafino, Debbo parlarti


(L'albino esce dal suo gruppo, che si sofferma, e poi procede ed entra nella sua camera. Ma Fortunato non si muove).


Ardia (a Fortunato:) — Avanti, Saggese!
Fortunato. — E Serrafino?
Ardia (duro:) — Mo vene Serafino. Avanti!


(Scontento, Fortunato si avvia verso la prima porta di sinistra. Presso la porta egli sosta un po' e distende le mani, come avvertendo la prossimità della parete. Poi, esce).


Ardia (al prete, toccandosi il berretto:) — Altri comandi?
Don Pellegrino. — Buon riposo, Ardia.
Ardia. — Bona nuttata. (Dispare nel corridoio di sinistra).


VII.


(Domina la serenità claustrale del silenzio. Sul mare, su la balaustra del verone e su la zona fondale del cortile, il chiaror plenilunare. A tratti, l'onda freme, nelle cavità della scogliera).


(L'inserviente Zaccaria attraversa il cortile, dal corridoio di destra verso quello di sinistra. Vede Don Pellegrino e, senza fermarsi, s'inchina, si tocca il berretto e si bacia la punta delle dita, dopo di avere accennato con la mano al sacerdote. Esce).

(Dal mare, un po' lontano, il canto festoso di una brigata, su gli accordi di mandolini e chitarre).
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Uno della brigata.

— Sul mare luccica
l'astro d'argento;
placida è l'onda,
prospero il vento.
Venite all'agile
barchetta mia!...

Tutta la brigata.
— Santa Lucia!
Santa Lucia!


(Il canto s'interrompe. Squillano risate argentine, commiste a molte voci liete, confusamente. I mandolini trillano e le chitarre sospirano il ritornello dell'antica canzone. E il suono vanisce a poco a poco, sotto la luna).


Don Pellegrino (in tanto, ha cavato da una saccoccia della sua sottana una larga busta gialla, striata di francobolli e timbri. Ha lacerato la busta, e da questa ha estratto un foglio, a mezzo stampato, e scritto sull'altra metà. Ora, inforca le lenti, tossisce un po', chiama:) — Serafino...
Serafino (come tratto bruscamente da una meditazione, sussulta:) — Padre?
Don Pellegrino. — Siedi, figlio. (Accompagna l'albino presso un piccolo sgabello, che è al centro del cortile, quasi sotto la lanterna).


(Serafino si abbandona allo sgabello. Allunga il collo e piega un po' il capo verso la voce del sacerdote; le sue labbra e le sue orbite, vagamente rischiarate dalla poca luce della lanterna, hanno visibili contrazioni. L'albino è in ansie).
Don Pellegrino. — È papà, che ti scrive.


(Il cieco è scosso da un lungo brivido: e stringe le mani su le ginocchia, e si rannicchia su lo sgabello, in attesa acutissima).
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Don Pellegrino (solleva il foglio alla luce della lanterna, e legge con voce monotona, staccando le sillabe, or sospirando, or soffermandosi e contemplando fugacemente di sopra gli occhiali l'attitudine del giovine, ora scrollando il capo, in atto d'indulgenza, di sdegno, di pietà, a seconda delle sensazioni che suscita in lui la lettura:) — « Caro figlio mio, ti scrivo questi pochi righi, col permesso dell'Illustrissimo Signor Direttore, che mi ha concesso questo sfogo per la mia buona condotta. (Una pausa). Caro figlio mio, tu non puoi accanoscere le pene dell'Inferno che mi rattrovo. Oggi fanno giusto dieci anni che io... che io... (Non interpreta subito la parola, e solleva ancòra più il foglio acuendo lo sguardo verso la fiamma della lanterna)... che io sto assaggiando morte e passione, più di Nostro Signore Gesù Cristo, quando sulla Croce faceva sìzia sìzia, e gli diedero a bere l'aceto e il fiele. (Una pausa. Un sospiro). Povera Rosina! Era innocente come l'Immacolata Vergine, sempre sia lodata! E io mi macchiai del suo sangue queste mani, che me le asciugo sempre perchè me le sento ancora come se fossero bagnate di sangue (La sua voce ha un lieve tremito). Quelle tre botte di triangolo mi trapassano ancora il mio cuore da parte a parte, ogni volta che ci penso, figlio mio!»...
Serafino (è preda di uno spasimo ineffabile. Più si raccoglie su lo sgabello, e preme il mento contro il petto, per contenere il pianto irrompente. Le sue mani stringono con moto convulso le ginocchia, e sono scosse da un tremore implacabile. In un singhiozzo, geme, con voce appena sensibile:) — Mamma mia bella!...
Don Pellegrino (è commosso; di dietro il cristallo delle lenti, i suoi occhi brillano. Accenna a dir qualche parola al desolato; ma non sa e non può. E continua a leggere sforzandosi di rasserenare la sua voce:) — « Io ti scrivo sempre le stesse cose, perchè sono sempre lo stesso i miei patimenti. Ma non deve trovare né requie né pace quel mostro che ci ebbe la causa e la colpa, che non potette arrivare ai suoi scopi con Rosina, e cacciò la calunnia infame, come si chiarì al pubblico dibattimento.
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(Una pausa). Perdonami, figlio mio! Perdonami! Come faccio a sopportare questa vita e a mangiare il pane dell'ergastolano, se tu non mi perdoni? Anche Rosina mi perdonò in punto di morte. Ti ricordi? Pioveva. E tu ci avevi sette anni, e non ci vedevi, figlio mio. E quella notte riposavi accanto a Rosina... E quella povera infelice innocente spirò addosso a te, condicenno che era una calunnia, e che mi perdonava... mi perdonava...» (Non può proseguire).
Serafino (eccitato e stanco, dopo un ultimo sforzo per contenersi, prorompe in dirottissimo pianto. Poi stringe le braccia contro il petto, come riabbracciando l'agonizzante; e rievoca, a frasi rotte, affannosamente, l'ultimo colloquio con sua madre. Par che egli riviva l'ora tragica di quella notte:) — « Mammà?... Mamma mia!...» — « Bello 'e mamma soia! Nun ce credere!... » — « Mammà!... » — « Nun ce credere, figlio mio!... » (In un rantolo esasperante:) — « Mamma mia!... Mamma mia bella!... »


(Un lungo silenzio).


Don Pellegrino (si toglie le lenti, che serba in un astuccio e poi nella sottana. Ha gli occhi lucidi e rossi).
Serafino (stancamente:) — E po'?... (Ora, i suoi singhiozzi son più lievi e più radi, e men aspro è l'affanno).
Don Pellegrino (con prudenza, piegando il foglio:) — E poi... e poi, ti fa sapere che fra tre giorni passerà a fattori... Invoca di nuovo il tuo perdono. E ti abbraccia, e ti benedice. (Mette la lettera nelle mani dell'orfano).
Serafino (porta istintivamente il foglio alle labbra, e lo bacia; poi, lo serba sotto la giacca).
Don Pellegrino (la mano su capo del giovine, con bontà paterna:) — Le lacrime del pentimento purificano l'anima d'ogni peccato. E beati i peccatori che sanno piangere. Tuo padre sconta il suo Purgatorio quaggiù. Tu raccomandalo al Signore, nella tua preghiera.
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Serafino. — Sì, padre. (Appare rasserenato).
Don Pellegrino. — Mamma tua, di lassù, ti ascolta e ti benedice, come io ti benedico. (Una pausa). Ma il perdono, per essere bene accetto alla misericordia divina, deve estendersi anche ai nostri nemici. Più essi ci fanno del male, più noi dobbiamo pregare per la salvazione dell'anima loro. Gesù Cristo fu posto in croce senza peccato, e perdonò ai suoi crocefissori. Non vorrai tu perdonare a colui che portò la sventura nella tua casa?
Serafino. — No! (Come per uno scatto di molla, erge il dorso e il capo, impetuosamente. Nella sua faccia, vòlta alla voce del prete, si raggrinza su la fronte e si allarga nelle mascelle compresse).
Don Pellegrino (sorpreso:) — No?!
Serafino. — No! (Si leva. Inesorabile e pietoso:) È peccato!... So' diece anne, padre!... Diece anne! E ogne notte è chella notte!... Io chiammavo... E nisciuno mme rispunneva... E mme sentette, cca, ncopp''a spalla, sciulià 'e ttrezze 'e mamma mia... Mme tuccaie 'n pietto; e 'a mano mme se 'nfunnette... (Si tocca sul cuore abbrividendo). E io chiammaie, n'ata vota... E mme rispunnette na iastemma... E po' sentette sbattere 'a porta... E chiuveva... e chiuveva... (In un supremo anelito di esasperazione:) Ah!... Ll'uocchie!... Ll'uocchie, Dio! (Ricade su lo sgabello).


(Un silenzio).


Don Pellegrino. — Calma, figliuolo. Come sul capo di ogni giusto scende la Grazia, passa sul capo di ogni peccatore l'ora della espiazione.
Serafino (con ansia, sordamente:) — Quanno?... Quanno?... Quanno?...
Don Pellegrino. — Non a noi è dato di conoscere i decreti della giustizia divina. Qual è il destino di colui che fece tanto male alla tua casa? Vive egli ancòra? E come vive? Chi sa!


(Un silenzio).
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Don Pellegrino. — Va' a rispondere, figlio. E perdona. Noi non possiamo che perdonare.


(Serafino dice di no, col capo, implacabile. Il sacerdote lo scuote, incitandolo a levarsi).


Serafino (senza muoversi:) — No, padre, Saccio 'a via d''a cammarata.
Don Pellegrino. — Ma è già tardi.
Serafino. — Nu poco d'aria mme fa bene. Iate, padre. Saccio 'a via.
Don Pellegrino. — Non trattenerti troppo, qui. E cerca di riposare. Buona notte.
Serafino. — Bacio le mani, padre.


(Don Pellegrino scompare nel corridoio di sinistra. Un silenzio. Serafino nasconde la faccia nelle mani, i gomiti appuntati su le ginocchia, in pietoso raccoglimento).

(D'un tratto, percòte l'aria il suono di un clarino. Santino Spada modula le prime battute della nenia a « Luna nova »).


La voce del guardiano Ardia (vicina e severa:) — Santino!
La voce del guardiano Battista (lontano e a distesa:) — Silenzio!


(Tutto tace. Si ode appena, a tratti, l'anelito accorante di Serafino).


VIII.


(Appare su la soglia della prima porta di sinistra il cieco Fortunato Saggese. È pallido, spettrale: un'ombra nella penombra. Si sofferma su la soglia, il mento all'insù, e appoggia le mani agli stipiti. Da una delle saccocce interne della sua giacca, sbottonata, sbuca la
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cannuccia di una pipa di creta. È tormentato dall'asma; il suo petto, scarno e ispido di tra le pieghe della camicia aperta, si gonfia e si abbassa, nella difficoltà del respiro. Avanza di qualche passo; ma, quando ode, nel silenzio circostante, l'anelito dell'albino, si sofferma un'altra volta; e piega il capo, e s'indugia, in ascolto. Poi, procede lentamente, in ansie, il passo un po' strascicante, verso il posto onde il lamento proviene. A poca distanza dallo sgabello, egli avverte la prossimità di un altro. E di nuovo s'indugia, e protende le mani in avanti).


(Serafino ha udito lo scalpiccìo, che si è interrotto d'un tratto; e ha sollevato il capo e cercato di contenere la sua pena. Ora egli sente che qualcuno gli sta da presso; e protende anch'egli le mani verso il suo vicino).

(Le mani dei due ciechi s'incontrano, si toccano, si stringono, si tengono lungamente).


Fortunato. — Si' tu.
Serafino. — Ah! Si' tu.


(Le loro mani si staccano. Fortunato si accosta a Serafino, e gli tocca appena le gote con la punta delle dita).


Fortunato. — Tu chiagne.
Serafino. — No.
Fortunato (d'un tono che non consente replica:) — Tu chiagne.


(L'albino risponde con un sospiro).


Fortunato. — Pecchè?
Serafino (spallucciando:) — Niente.
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(Incredulo e dolente, Fortunato ritrae subito la mano dalle gote del suo compagno. Egli va alla parete di sinistra, raccoglie uno sgabello, lo trascina al mezzo del cortile, siede).


(Il suono di una campanella annunzia l'ora del silenzio).

(Fortunato cava dalla saccoccia della sua giacca la pipa, e da una saccoccia dei suoi calzoni un fiammifero di legno, che accende strofinandolo sul dorso dello sgabello. Accende la pipa, ed emette qualche boccata di fumo. Ma è più acutamente assalito dall'asma. E brevi colpi di tosse gli rompono il petto).


Serafino. — Nun fumà. Te fa male.
Fortunato. — No. Mme fa bene. Mme fa cumpagnia e mm'aiuta a scurdà (In un sospiro penosissimo:) E io so' sulo. E collere nn'aggio assaggiate assaie!
Serafino (sinceramente afflitto:) — Simmo cumpagne. E nun mme dice niente!
Fortunato (sussulta. La pipa gli cade su le ginocchia. Egli la raccoglie, e risponde, dopo una lunga pausa:) — Già... simmo cumpagne... Ma tu manco mme dice niente. E chiagne. Io te spio 'o pecché. E tu, niente. Ma tu chiagne, almeno. Io nun pozzo manco chiagnere cchiù!


(Un silenzio).


Fortunato (sussulta. La pipa gli cade su le ginocchia. Egli la raccoglie, e risponde, dopo una lunga pausa:) — Già... simmo cumpagne... Ma tu manco mme dice niente. E chiagne. Io te spio 'o pecché. E tu, niente. Ma tu chiagne, almeno. Io nun pozzo manco chiagnere cchiù!


(Un silenzio).


Fortunato. — È nu mese ca sto' cca dinto, e l'unico cumpagno mio si' tu. (Un po' accentuando le parole:) Pare comme si ce canuscéssemo 'a diece anne... E tu sulo, tu sulo mme può cumpatì.
Serafino. — Io? (La sua bocca ha un sorriso di umiltà).
Fortunato. — Tu. (Infervorandosi a poco a poco:) Tu nun tiene a nisciuno, comm'a me. E tutte 'e dduie ca putimmo cunfidà. (Nel fervore stringe nervosamente le mani di Serafino. Uno schianto è nella voce di tui; par ch'egli invochi un conforto supremo). Serrafì!...
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Serafino (intenerito:) — Furtunà!...
Fortunato. — Ll'uocchie mieie se so' seccate, Serrafì! E so' tre anne!... Na matina mme scetate, e nun schiaraie iuorno, pe me. Vene 'o miedeco, e dice: « È la cateratta! Le troppe amarezze! » (Lascia le mani di Serafino; più si ritrae su lo sgabello, come vinto da un vago timore; e ripete sconsolatamente:) Le troppe amarezze!
Serafino. — Che peccato avimmo fatto, p'essere maletrattate accussì?
Fortunato. — Tu, niente. Tu si' nato accussì. Tu si' comme a uno ca mo è nato. E peccato nun ne puó tené. E nun puó avé pentimente.
Serafino. — Po essere! (Con grande tristezza:) Ma tu saie tante cose... Io... che saccio io? Tu saie comme era mamma toia. Io ne tengo a mente 'a voce, 'a voce sulamente. Ma nun saccio comme era mamma mia.
Fortunato (ha un'evidente scossa di pena. Tace qualche istante, perplesso, poi, come superando un ostacolo interiore, con uno sforzo:) — Io, sì... Io... ll'aggio canusciuta a mamma toia...
Serafino (compreso di stupore:) — Tu?!
Fortunato (con temerità e preoccupazione:) — Stévemo 'e casa a porta... a San Giuvanniello... Affacciàvemo ncopp'a nu ciardino... A maggio 'o ciardino era na schiusa 'e rose. E Rosa se chiammava mamma toia...
Serafino (preme con ambo le mani le ginocchia del suo compagno, il dorso piegato, la bocca quasi su la bocca di lui; e chiede, con ansia affannosa:) — E comm'era? comm'era?
Fortunato. — Era bella, era... Bionda bionda... Suttila suttile... Quanno parlava, lle tremmava 'a voce... Pareva comme si sentesse friddo, quanno parlava... E fredde erano 'e mmane, e fine fine; e tremmavano, comme 'a voce...
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Serafino (mentre Fortunato parla, accenna di sì col capo, e ripete, a tratti come un incitamento:) — Di'... Di'...
Fortunato. — 'A chiammàveno Biundinella, 'a chiammàveno... A capo 'o lietto tenìveve nu quadro d''a Madonna d'o Buoncunziglio... E Biundinella era tale e quale a chella Madonna...
Serafino. — Pure chesto saie, tu?!
Fortunato. — Stévemo 'e casa a porta... E io mme riricordo a te: tantillo tantillo... Mme ricordo a papà tuio: 'on Salvatore... E mme ricordo... (È invaso da uno strano sgomento. Cresce la tortura dell'asma. Egli s'indugia, come smarrito).
Serafino (quasi appoggia la sua guancia destra su le labbra di Saggese, e questi incita alla parola, scuotendogli le ginocchia, e accompagnando il gesto con la voce:) — Di'... Di'...
Fortunato. — ...'On Salvatore faticava a ll'Arzenale... Biundinella cuseva... e cantava...
Serafino (tutto vibrante di tenerezza:) — Cantava?
Fortunato — ...e cuseva... Sotto 'o grillagge... Fore 'a luggetta... (Con molte pause:) Ma nu iuorno... nu iuorno... nun cantaie cchiù... Cuseva... e chiagneva... 'On Salvatore 'a maletrattava... (Tenta di scostarsi un po'. Lo sgabello scricchiolo). Pecché 'a maletrattava?...
Serafino (come una lugubre eco:) — Pecché 'a maletrattava?...
Fortunato. — ...Nu strànio... nu strànio runziava attuorno a Biundinella... (La sua voce palpita, e quasi vien meno. Ma egli si sforza di parlare, come ansioso di sottrarsi a un incubo). 'A vuleva afforza.... Afforza 'a vuleva!... (Si scosta ancòra di più, verso il fondo).
Serafino (senza staccarsi da lui, seguendolo:) — Di'... Di'...
Fortunato. — ...Nu iuorno... a maggio... arrivaie, in licenza, nu sargente 'e bersagliere... Nu frate cucino 'e 'on Sarvatore... Parlava miezo tuscano... e cantava
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sempe: « Addio, biondina! Addio! » (Accenna con voce stentata il motivo dell'antica canzone:)

« Addio, biondina! Addio!...
L'armata... se ne va... »


(Serafino, tutto irradiandosi al ricordo lontano, dice replicatamente sì, col capo).
Fortunato. — ...Biundinella cantava pur essa... e redeva... E don Salvatore... ogne sera... quanno turnava 'a ll'Arzenale... mme diceva ca lle parévano mille anne ca 'o sargente se ne fosse turnato a reggimento... Nun vuleva sentì cantà: « Addio, biondina! »...
Serafino. — Pecché?...
Fortunato (balbetta, a pena:) — Pecché?... (Una lunga pausa). Na notte... fece na scenata... E 'a matina apprieso 'o sargente nun turnaie cchiù... Biundinella cuseva e chiagneva... E 'o strànio runziava... runziava...


(Ora, Serafino tace, come oppresso da un tragico presentimento).


Fortunato (affannosamente, a frasi rotte:) — ...'N capo a sette otto iuorne, na sera... comm'a mo... nu fatturino purtaie na lettera... a don Salvatore... Io... 'a liggette... « La vostra... signora... si diverte... col sargente... sopra alle locande... » (Con tutta l'anima, insorgendo:) No!... Nun era overo!... (Vorrebbe levarsi; ma le mani gracili dell'albino lo inchiodano alla scranna).
Serafino (confondendo la sua voce con quella di Fortunato:) — Nun era overo!... No!...
Fortunato (subito:) — Nun po fa' peccato 'a Madonna!... E nun vulette fa' peccato!... E se cuntentaie 'e murì accisa!...
Serafino (con uno schianto nella voce:) — Mamma mia!...
Fortunato — ...'A veco... comme si fosse mo... (Atterrito, come nell'alba tragica:) A primma matina... Arravugliata 'int'a nu lenzulo... 'A faccia cchiù
[p. 78 càgna]
ghianca... 'E capille cchiù bionde... 'E mmane cchiù suttile... (D'un tratto, con un grido ròco:) Dio!... È na barbarità!... E nun è giusto!...
Serafino (si alza, tremante; le sue mani son passate dalle ginocchia al collo di Fortunato. Quasi soffocato dall'emozione, ripete:) — Nun è giusto!... E tu?... Che faciste, tu?... Tu 'e ttenive ll'uocchie!
Fortunato (subito, concitatissimo:) — E guardaie, pe sette anne... E cercaie, pe sette anne... Comme si fosse stato 'o frate carnale 'e Biundinella morta!... Ma a che mme servèttero ll'uocchie?... 'N capo a sette anne, truvaie a chi ievo truvanno...


(Serafino, come assaporando la voluttà di una vendetta a lungo meditata, sorride ferocemente).


Fortunato (senza neppure una pausa:) — ...Ma a chi truvaie?... 'A iastemma era arrivata primma 'e me... Truvaie nu muribondo... Peggio 'e si fosse muorto!... Senz'uocchie... Senza salute... Ma cu na speranza... (L'affanno lo scuote tutto. Egli è riuscito ad alzarsi. Stretto a Serafino, prosegue:) Una speranza teneva: 'a speranza 'e truvà a te... (Avvinti l'uno all'altro, i due ciechi retrocedono verso il verone. Uno sgabello cade, con romor secco). 'A speranza 'e te truvà... pe te cadé addenucchiato nnante... pe te di': Perdòneme!... Perdòneme!... Ll'aggio pavata caro e amaro! » (La coppia si sofferma e più si stringe, un istante). Perdòneme, Serrafì!... So' diece anne ch'aspetto! (Cade su i ginocchi, dinanzi all'albino, scivolando lungo il corpo di lui. L'asma quasi lo strozza).
Serafino ( « vede » la realtà. Sobbalza e grida, rauco:) — Ah!... (Simultaneamente, con ambo le mani, stringe il collo di fortunato, ed emette brevi urli cupi:) Si' tu?!... Si' tu?!...
Fortunato (dibattendosi nella stretta:) — Perdòneme!...
Serafino. — Si' tu!
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(Con un ultimo sforzo, Fortunato riesce a divincolarsi e a sorgere. I due ciechi si avvinghiano, in una lotta disperata. Nulla più di umano è nelle loro voci: son rantoli, e piccoli urli, e secchi ruggiti. Così, attaccati, lottando, Serafino ad offendere, Fortunato a difendersi, essi raggiungono la balaustra del verone, aperto sul mare. L'albino moltiplica i suoi sforzi, ingigantito dall'odio, e spinge il suo nemico oltre la balaustra. Ma Saggese, con abile mossa, riesce a raddrizzarsi e, seduto su la balaustra, si aggrappa a Serafino. D'un tratto, questi gli è sopra, e rinnova la spinta. Le due ombre risaltano nell'arco del verone, su la vastità plenilunare. Fortunato pèncola ancòra una volta. Poi, precipita nel vuoto, e trascina con sé, nella caduta, la sua « guida cieca ». Un romor sordo sale dal mare, seguìto da un lento gorgoglio dell'onda).


(Vuoto e silenzio).

(Il suono del clarino si rinnova, d'un tratto. Santino ripete la nenia a « Luna nova ». Le note si propagano nell'aria, dolcissimamente).
La voce del guardiano Battista (lontana e lenta:) — Silenzio!


(Il suono continua).


La voce del guardiano Ardia (vicina e imperiosa:) — Silenzio!
(Il suono cessa. E il silenzio incombe).



SIPARIO.
  1. I ciechi vestono un abito uniforme: giacca e calzoni di una tinta azzurrognola, e berretto di panno, dello stesso colore. La giacca è una specie di giubboncello, lungo fin sopra i fianchi, orlato di fili rossi, luccicante di bottoni dorati sul petto, e nei fianchi stretti e sul collo. Anche i calzoni e il berretto han l'orlatura di rosso. C'è chi porta la giacca sbottonata, chi rigorosamente chiusa, e chi abbottonata soltanto presso il collo. Dalla moltitudine emergono alcune figure. - Un giovinotto di diciannove anni, magro e tutto gesti: ha gli occhi lucidi e fissi, e sul volto un sorriso costante: è Santino Spada, rapsòdo e suonator di clarino. — Un vecchietto bianco, con le occhiaie cave e il volto rugoso: è Vito Arcà, il decano dell'Ospizio: melanconico e poco loquace: la familiarità immutabile dell'ombra pare abbia attutito in lui ogni energia vitale, tranne il respiro. - Un enorme montanaro, di quaranta anni, con le palpebre appena socchiuse, le mani callose, la capigliatura intricata, la fronte breve: ha nome Amitrano. - Un giovane di venticinque anni, malaticcio, ipocondriaco: ha il volto consparso di lentiggini e le palpebre arrossate e gonfie, ove quasi annegano le pupille spente: parla di rado, ma ha squisitissimo il senso del tatto: cammina con le braccia protese in avanti e le mani aperte all'ingiù: non ha nome, e i suoi compagni lo chiamano « Sensitiva ». Distintissimo nella schiera è un cieco di età imprecisabile tormentato dalla chiragra. Una testa enorme nelle bozze frontali, sopra un corpo di nano. Le sue mani deformate egli stringe in croce sul petto: e il suo volto smagrito e abbattuto sotta il peso della fronte mostruosa. Non parla. Ha nome Salemme.
  2. Serafino ha diciassette anni. Piccolo, esile, pallido. Ha la capigliatura e le sopracciglie bianche e lanose, come quelle degli albini, e le pupille chiare e le ciglia sgranate, come nello schianto di un terror permanente. E' nato cieco. Fortunato è alto, scheletrico. Ha trentasette anni, ma ne mostra di piu, tanto è logoro e accasciato. Nelle cavità delle orbite, il nero delle sue pupille è appannato da una velatura biancastra, appena percettibile. Ha le labbra tumide e rosse, come quelle dei mulatti, il collo lungo, la faccia pelata, le mascelle sporgenti, e palpitante il naso a becco. Affanna lievemente; e ogni tanto è scosso da colpi secchi di tosse. Cammina a fatica; e si appoggia costantemente a Serafino. Il piccolo albino è la « guida cieca di un cieco ».