Del dialetto napoletano - Ferdinando Galliani (1789)/Della Pronunzia

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RIFLESSIONI

Sull’Indole, e sulle Caratteristiche del Dialetto Napoletano, e sulla Grammatica di esso.

Della Pronunzia.


N On è sembrata a molti strana opinione il credere, che siavi nella diversa organizzazione de’ corpi delle razze umane (che certamente dipende assai dal suolo, e dal clima, ove abitano) qualche intrinseca, e natural connessione col linguaggio, che parlano. Quindi hanno immaginato, che i nervi, e i muscoli delle nazioni abitanti i climi rigidi, trovandosi più tesi, e intirizziti dal freddo, producessero suoni aspri, e disarmonici, e sibili quasi non diversi da quelli, che ciascuno fa, allorchè trema per soverchio freddo. Che per contrario i popoli delle nazioni aduste dal soverchio caldo inclinassero ai suoni gutturali, e mal espressi, e simili all’ansante, e grave anelito di chi lasso dalla noja, e dal caldo, cerchi rinfrescar l’interna arsura.

Checchè siesi di queste ingegnose teorie, che non solo van ricercando l’origine del suono de’ [p. 2 càgna]dialetti, ma s’inoltrano a voler ritrovar quelle della legislazione, e de’ costumi, e finanche delle credenze religiose negli effetti della diversa latitudine, e nella varietà de’ terreni, e convertono la Morale in Geografia (teorie oggi attribuite al Presidente di Montesquieu da coloro, che non le hanno sapute scorgere nelle opere del Segretario Fiorentino, che pare esserne stato il primo immaginatore); certa cosa è riguardo al linguaggio della più gran parte de’ popoli oggi abitanti il Regno di Napoli, d’essersi in esso conservata sempre la stessa caratteristica da quella più rimota antichità, di cui si ha notizia fino ad ora. Il dialetto Greco, che questi popoli generalmente parlarono, fu il Dorico, dialetto, che si distingue dall’Attico, e dal Jonico per le vocali più aperte, le voci pronunziate con maggior espressione, le consonanti battute con maggior impulsione. E queste sono le caratteristiche appunto del nostro dialetto, rispetto alla lingua generale Italiana; cosicchè il Napoletano potrebbe ben dirsi il Dorico della favella Italiana. Lo parla il nostro volgo senza gutturali affatto, e senza dittonghi, ai quali anzi è così avverso, e riluttante l’organo, che volendo apprendere a pronunziargli nel Francese, o nell’Inglese, vi stenta moltissimo, e perloppiù non vi giunge mai, a differenza de’ Lombardi, Genovesi, Piemontesi, che nel loro dialetto, benchè d’origine Italiana, hanno tutti i dittonghi de’ Francesi. I Napoletani danno il maggior suono, ed il più pieno, che possono, alle vocali del mezzo delle parole, sostenendole benchè senza gorga. Delle vocali iniziali n’elidono molte dalle voci, e ciò in [p. 3 càgna]grazia di quelle altre, che sossieguono, e che con forza pronunziano. Talvolta elidono le sillabe intiere, e convertono tutta la sillaba in un semplice rinforzo della consonante susseguente; e parimente allora l’elisone della vocale si fa sentire per la maggior forza, con cui si pronunzia poi la consonante, che perciò pare raddoppiata.

Generalmente la finale e delle voci si elide, o si lascia sentire appena, come fanno i Francesi. Sicchè tutta la forza si ristringe al mezzo della parola. In ella non ripugna il dialetto, anzi inclina a rinforzar le consonanti, principalmente le liquide, raddoppiandole. Così per esempio dicono ammore in luogo d’amore, nziemme per insieme, arrobbare per rubare, arroico per eroico, nutriccia per nutrice, assequie per esequie, musso per muso, femmena per femina, hommo per uomo, comme per come etc.

Quello gusto a rinforzar le consonanti liquide nel mezzo delle parole si stende anche talvolta, allorchè sono iniziali. Così per esempio pronunziandosi Napole si dà un poco più di forza all’N iniziale a segno, che molti scrittori nostri non han dubitato scriverla con due n, Nnapole: ma questa maggior forza nel pronunziare è poco sensibile, se non quando precede altra parola, che finisca con vocale piena; e non meritava passar nell’ortografia. Assai più chiaro si fa sentire questo suono di doppia consonante, allorchè la parola si trova preceduta da altra vocale, come allorchè si dice a Napole, che pronunziasi a Nnapole: ma se dovesse scriversi [p. 4 càgna]così, ne ragioneremo ove parleremo detta nostra ortografia.

Per effetto della stessa inclinazione all’espansione delle vocali, allorchè s’incontrano nell’Italiano le due vocali ae, ea, oe, ue, i Napoletani n’espandono il suono, ed evitano la quasi cacofonia (della quale sono inimicissimi) coll’interposizione della semivocale j lunga. Così dicono

Majestà per Maestà. Crejato per Creato.
Pajese Paese. Voje Bue.
Majestra Maestra. Toje Tue.
Vejato Beato. Soje Sue, etc.

Sebbene sia vero, che inclinano i Napoletani a rinforzar il suono delle consonanti, che incontrano in mezzo alle parole, e delle liquide, che fan principio alle voci, è molto più vero, che abborrono mortalmente l’incontro, e il suono di consonanti aspre tra loro. Così la l, che sia susseguita o dalla d o dalla s, o dalla z, si converte sempre in qualche altra lettera, o si elide in tutto. Spessissimo si cambia in u, come meuza per milza, auzare per alzare, cauzare per calzare, sbauzare per sbalzare, caudo per caldo, caudara per caldaja, auto per alto, sauto per salto, sciouto per sciolto. Talvolta si elide come ata vota per altra volta etc.

Anche dallo stesso genio del Dialetto deriva l’aggiunzione della vocale finale e, che resta poi quasi muta, a certe voci, che in Italiano terminano in i. Così dicesi maje per [p. 5 càgna]mai, guaje per guai, staje per stai, vaje e per vai etc.

E non solo allorchè si tratta di raddolcire un incontro di due vocali, ma anche in moltissime voci Italiane, nelle quali s’incontra l’e sola, questa da’ Napoletani si espande coll’aggiunzione dell’altra vocale i, che la preceda, e ne allunghi, e rinforzi il suono. Così dicesi priesto per presto, tormiento per tormento, cappiello per cappello, agniento per unguento, viento per vento, pierde per perdi, castiello per castello etc.

Abbiamo abbastanza detto della forza, con cui pronunziansi le consonanti raddoppiandole, e dell’espansione, con cui profferisconsi le vocali.

Avvertiremo però, che siccome nel pronunziar l’o aperto (da’ Greci detto O grande) i Napoletani ne rinforzano l’espansione più che i Toscani, così per contrario nel pronunziar l’o chiuso (da’ Greci detto O piccolo) ne ristringono il suono a segno, che alle men delicate orecchie pare un u. Non giunge però mai a divenirlo. Se vi si facesse giungere, il dialetto nostro si convertirebbe in Siciliano, o in Calabrese; giacchè appunto in questa generale conversione degli o in u si può mettere l’essenziale caratteristica, e il distintivo di questi due Dialetti. Perciò quel Gazzettiere, che ha creduto, che in Napoletano si dovessero scriver coll’u le voci accussì, pueta, prufeta, purtaje, alluggiaje, canuscenza, mugliere, ed altre, si è ingannato assai, ed ha solo mostrato il pendìo, e l’istinto, che avea da [p. 6 càgna]Napoletano che egli è, a farsi, anche nella pronunzia, Calavrese.

Ora passeremo a dire dell’uso particolare delle tre lettere A. N. S.

L’A nel nostro dialetto si aggiunge spesso per soprabbondanza, e per iniziale alle parole, che nella lingua comune non l’hanno. Simile in ciò all’Aleph degli Ebrei, all’Eliph degli Arabi, allo Spirito forte o lente de’ Greci, e forse dal genio di taluna di queste lingue è a noi passata. Così per esempio si dice

Abbasta per basta. Addotto dotto.
Abballo ballo. Applacare placare.
Abbrusciore bruciore. Arrennere rendere.
Accossì così. Asciogliere scogliere.
Addove dove. Attassare tassare etc.

Nelle quali voci, ed in altre moltissime simili può osservarsi, che non solo per soprabbondanza si aggiunge l’a, ma si rinforza la susseguente consonante, o aspra, o liquida, che siesi.

Avvertasi però, che in moltissime parole così del nostro Dialetto, come del comune Italiano questa a deriva dalla preposizione ad latina, usatissima nella formazione de’ composti.

La N, che è iniziale di moltissime nostre voci altro spessissimo non è, che l’elisione della preposizione in de’ latini, che han pure gl’Italiani ne’ composti di molte voci: elisione, che noi facciamo non solo quando la proposizione in forma una sola parola con quella, a cui è prefissa, come ncogneto per incognito, nziemme per insieme, ma anche allorchè resta parola [p. 7 càgna]distinta. Così noi diciamo ncapo in capo, nfaccia in faccia: anzi possiam dire, che generalmente in ogni parola, che comincia da in si elide l’i, e si pronunzia solo la n, come ncienzo per incenso, ngiuria per ingiuria. Abbiano adunque gli stranieri poco pratici del nostro dialetto l’avvertenza, allorchè incontrano nel principio d’una parola l’n, a cui sussiegua altra consonante, di supporvi elisa la i. Ve la suppliscano, e subito quella voce, che avea loro una fisionomia barbara e strana, la riconosceranno per genuina, e pura Italiana. Così vedendo nfrusso, nnauzato, e supplendovi l’i, riconosceranno esser le parole influsso, innalzato.

Non solo della proposizione in si elide la vocale, e si dà forza maggiore alla consonante n pronunziandola come doppia; ma si rinforza anche quell’altra consonante, che sussiegue. La s si converte quasi sempre in z. Così quantunque i Napoletani pronunziano le voci sanità, salute, come i Toscani, pure allorché debbono dire in sanità, in salute, pronunziano nzanetà, nzalute, e così nziemme per insieme, nzoleto per insolito etc.

Altra mutazione di pronunzia siegue, se la preposizìone in precede parole, che comincino da v consonante; o da b, o da m. Allora l’aspro incontro del nb, del nm, o del nv si converte in un doppio mm. Così dicesi mmestere per investire, mmarcarse per imbarcarsi, mmano per invano, o in mano, mmedolata per invedovata, mmattere per imbattere, mmasciata per imbasciata. mmescottato per [p. 8 càgna]imbiscottito, bemmenuto per benvenuto, mmitato per invitato etc.

Finalmente non mancan parole nelle quali l’n è puramente un suono, ed una spezie di spirito sovrabbondante, e prodotto dalla sola forza, e fiato della pronunzia; il che siegue soltanto in alcune parole, che comincino da b, o da g, o da z. Così dicesi e mbè, e bene, nzocchè, ciocchè. Ed è tanto naturale, e quasi d’istinto quest’enfasi, e modo di pronunziare che i più teneri nostri bambini, allorchè cominciano a legger l’Abiccì, non lo possono d’altra maniera pronunziare, se non dicendo, A, mbe, ce, nde, nge, nzeta. E noi abbiam veduto talvolta maestri accaniti a sfogar con atroci battiture la loro pedantesca crudeltà su quelle tenere ed, infelici vittime della pregiudicata educazione, e voler correggere questa pronunzia senza poterne venir a capo; quasicchè fosse un demerito ad un nato in Napoli il non saper pronunziar Fiorentinamente, e non fosse questo impegno tanto ridicolo ed assurdo, quanto se un Fiorentino s’affliggesse, che i suoi ragazzi non facciano sentir bene l’accento Napoletano.

Della lettera S può dirsi ad un di presso ciocchè dell’a, e dell’u abbiam detto di sopra. S’incontra tanto spesso questa lettera nelle iniziali delle parole nostre, che quasi un sesto di tutte le voci nostre ne cominciano. In moltissime parole altro non è, se non la preposizione ex de’ latini, dalla quale si è elisa la vocale. Così straere per estrarre. Altre volte è per conversione dell’f, ciocchè avviene in quasi tutte la sillabe Fia Fio Fiu dell’Italiano: così [p. 9 càgna]dicesi sciato per fiato, sciore per fiore, scioccare per fioccare, sciummo per fiume. Talvolta poi è lettera sovrabbondante, e cacciatavi dalla forza della pronunzia, come scompere per compiere, sfrenesiare per freneticare, sgobbo per gobbo, etc.

Sulle mutazioni delle altre lettere diremo primieramente, che la b e la v consonante sono quasi sempre scambiate con libertà l’una coll’altra senz’altra regola, che un certo diletto dell’orecchio, che ora gode della più aspra ora della più liquida. Pare, che questo genio di mutar l’v consonante in b, o la b in v venga a noi dal Greco moderno piuttosto, che non dallo Spagnuolo. Ne sarebbero infiniti gli esempj, onde ci asterremo dal tediarne i lettori; ma per regola generale diremo, che egualmente bene e con purità di dialetto si pronunzia il b, a la v consonante; ma il saper quando ciò abbia a farsi è un effetto di pratica, e di delicato gusto nell’organo dell’orecchio, che mal può soggettarsi a regola veruna. Nel verbo volere, per esempio, può dirsi io boglio, tu buoje, chillo bole, egualmente che io voglio, tu vuoje, chillo vole; ma si deve dire io voglio, nè si può dire io boglio; si dice lo boglio, e non si dice la boglio, perchè alle nostre orecchie sarebbe ingratissimo suono io boglio andare, la boglio vedè, e non è rincrescevole suono il dir la boglio fare, lo boglio vedè. Quello basti per comprendere l’impossibilità di dar regole in una cosa, ch’è tutto effetto di sensazione delicatissima nell’udito, e chi ha creduto potervi fissare una regola, ha detta una scempiagine dopo un grande apparecchio [p. 10 càgna]di presunzione fondata sulla qualità ingenita di Lazzaro del Mercato, che si è vantato egli stesso d’avere.

Il P, quando sussiegono due vocali, si muta da’ Napoletani in ch, come chiù, per più, chiove per piove, chiano per piano, chiagnere per piangere etc. Ciò è tanto comune e caratteristico del nostro dialetto, che spesso avviene, che taluno de’ nostri ignorando il Toscano, e volendo pur farsi pregio di parlarlo (che molti hanno quella smania, quasicchè in Toscana non ci fosse volgo) incappano per eleganza a dir la piave, il piodo, la piavica, parendo loro, che a proferir chiave, chiodo, chiavica avrian commesso un nefando Napoletanissimo.

Avvertiremo per ultimo, rispetto alle mutazioni di lettere, secondo il genio del dialetto, che suol rincrescere agli orecchi Napoletani non meno la soverchia asprezza delle consonanti, che la soverchia dolcezza loro. Così siccome vedonsi spesso mutate le due tt in z per raddolcirle, come deze per dette, jeze per jette, così del pari le dolcissìme due ll o ls si trasmutano in z; voze per volle, sceuze per scelse, couze per colse etc. Egualmente la l si converte nella più aspra r, come concrudere per concludere, gurfo per golfo, consurta per consulta, serve per selve, sordato per soldato. La z spessissimo si sostituisce all’s per lo stesso principio, come perzona per persona, nzomma per insomma, pozzo per posso.

Da tutto il detto fin quì, che sembraci bastante a dare in abbozzo una idea del genio della pronunzia del dialetto, si potrà concludere con sicurezza, che il suono della nostra favella [p. 11 càgna]ha una certa temperatura, e moderazione tralle sibilanti asprezze dell’Italiano, e de’ suoi dialetti Bolognese, Lombardo, Genovese, e le languide dolcezze del Francese. I suoni riescono più articolati per l’elisione di molte vocali, che lasciano così meglio spiccare le consonanti; niun dittongo chiuso, niuna gutturale, niun contorcimento di labbra per pronunziare turbano il parlare pieno, spazioso, sonoro. Dunque de’ Napolerani al pari, che de’ loro antenati, avrebbe cantato Orazio

Graiis ingenium, Graiis dedit ere rotundo Musa loqui....

Questa caratteristica è stata così sensibile a chiunque ha impreso da due secoli in quà a comporre in questo dialetto, che tutti l’hanno concordemente avvertita, e celebrata, come pregio suo particolare. Il Cortese lo definì un parlar majateco, e chiantuto con felicissima metafora, comparandolo a quelle piante o frutta polpute, e succulenti, che riempiono la bocca, e lusingano gratamente il palato.

Pocca, Dio grazia, avimmo tanto suono,
Tanta dorcezza dinto a ssì connutte etc.

cantò il Capasso. Tutti insomma hanno sentita, e contestata questa pienezza di suono. Ma più di quelle autorità, che potrebbero credersi non imparziali, lo dimostra la facilità e l’incredibile naturale inclinazione de’ popoli, che usano questo dialetto, al poetare, ed al cantare. Il Napoletano, e il Pugliese, giacchè queste due nazioni parlano a un dipresso lo stesso dialetto (in differenza de’ Calabresi, e de’ Leccesi) pare che sempre poeteggi, o canti. Non vi è donna, che possa addormentar [p. 12 càgna]cullando il suo bambino tra noi, se non canta, e non pronunzia, o compone una canzone, o cantilena che siesi, che per lo più essa stessa fa, e versisica, e rima, accozzando parole spesso senza senso, e senza saper quel che si dica: tanto è meccanismo d’istinto in lei il poetare. Lo stesso sa l’artigiano, se si annoia nel lavoro; lo stesso sa il fabbricatore, se batte un lastrico; lo stesso il vetturino, se il pigro palio de’ suoi muli scuotendolo dal sonno, gliene indica, tediosamente la misura. Voga il navicellaio, e absentem cantat amicam multa prolutus vappa nauta. Non vi è festa di contado, dove non chiaminsi improvvisatori, e cantori. Tutto in somma cantò, e poetò, e tutto ancor poeteggia tra noi.

Della passione generale de’ nostri, e della disposizione alla musica che giova ragionare? Ne abbiamo il primato; lo abbiamo da più secoli; lo abbiamo non contrastato, nè lo perderemo, se non se qualche tetro soffio di oltramontana calcolatrice filosofia, e la smania di migliorarci mutandoci, non verrà a turbare la nostra ingenita ilarità, l’espansione libera de’ nostri polmoni, il nostro neghittoso scialare. Siane lontano l’augurio.

Che se a taluno restasse ancor dubbio della singolare, e distinta attitudine del dialetto ad accordarsi alle modulazioni musiche, noi ne appelleremo alla testimonianza di tanti illustri, e primi compolitori ancor viventi, che abbian prodotti. Tutti ed i Piccinni, e i Paesielli, i Sacchini, gli Anfossi, i Guglielmi, i Latilla, i Monopoli, i Cimarosa contesteranno, che quanto è più musicale l’Italiano, che non [p. 13 càgna]è il Francese, tanto lo è il Napoletano più dell’Italiano istesso. Nè potrebbero dir altrimente, perchè le orecchie di qualunque uomo, anche le più dure, e disarmoniche, gli smentirebbero, se volessero negarlo. Piglisi per farne saggio quello verso, che scegliamo a caso, e solo perché incontrasi in una arietta, che poco fa fu in scena

Nè Signò? me ne pozz’ì?

Sostituiscanvisi colla stetta modulazione di canto messavi dal gran Paesiello, le corrispondenti Italiane: eh Signor? me ne posso ir? Decidasi da chiunque.

Se questo esempio come di verso soverchio breve non li credesse bastante a far il confronto, e la decisione, rapporteremo questi versi d’un notissimo duetto messo in musica dall'immortale Piccinni.

Proposta. Vado a votà la rota,
                   Vado a trovà l’amice,
                   Venite quacche vota
                   Veniteme a trovà.

Risposta. Tu che bonora dice,
                   Io sò Coletta toja,
                   Marito caro gioja,
                   Non farme speretà.

Siccome tutte le parole sono d’origine Italiana, tolta la semplice mutazion dell’inflessione, che ricevon dal dialetto, ecco che vi controporremo le precise Italiane non badando a conservar la rima.

             Vado a voltar la ruota,
                   Vado a trovar gli amici,
                   Venite qualche volta
                   Venitemi a trovar.

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             Tu che bonora dici,
                   Io son Coletta tua,
                   Marito caro gioja,
                   Non farmi spiritar.

Per dio, che questo Italiano confrontato al Napoletano pare Illirico, pare Tedesco!

Da sì fatte considerazioni traggasi quella generale teoria, che nuoce egualmente all’effetto dell’armonia musica la soverchia asprezza, e la spossata dolcezza delle parole; e perciò il Tedesco, ed il Francese ricalcitrano egualmente alla musica, quello per eccesso di durezza di consonanti, questo perchè soverchio snervato, e direm quasi dissossato di esse.

Bastici ciò aver detto dell’indole, e delle proprietà del dialetto Napoletano rispetto alla pronunzia, e alle alterazioni, che fa alla lingua comune; giacché nostra intenzione non è già insegnar a fondo o la grammatica o la pronunzia del nostro dialetto agli stranieri. Soverchio geme il sapere umano sotto il peso della varietà delle lingue dotte divenute necessarie ad apprendere: nè le produzioni scritte nel nostro dialetto sono sinora tante e tali, che gli forzino a studiarlo. Abbiam soltanto voluto darne loro una tal quale idea, dietro, la quale non sarà forse tanto difficile a chi sa. bene l’Italiano, indovinar il senso delle nostre voci, le quali sotto la scorza d’una strana pronunzia, e d’una anche più strana ortografia sembrano indicare una spaventevole distanza dal linguaggio generale, donde in sustanza poi si discostano pochissimo. Passiamo ora a darne qualche notizia Grammaticale.