Del dialetto napoletano - Ferdinando Galliani (1789)/Prefazione

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[p. V càgna]
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PREFAZIONE.


Tra tutti gli amori terreni niuno certamente è più lodevole, più onesto, quanto quel della Patria. E quantunque a ciascuno sembri la propria esserne la più degna, e sola senza divisione d’affetti, senza comparazioni; senza rivalità l’onori, e l’abbia in pregio, e l’ami; pure se fosse permesso tra questi doverosi amori far parallelo, niuna Patria a noi ne pare tanto meritevole, quanto Napoli per chiunque ebbe in sorte il nascervi cittadino. Perchè siccome noi veggiamo, che prediliggono i genitori con più giusta ragione di tenerezza quei fanciullo, che bello, prospero, sano, vivace, docile sopra gli altri si palesa: chi negherà a Napoli una stupenda bellezza di situazione, la salubrità dell’aere, l’amenità dei Cielo, la dolcezza quasi perpetua delle stagioni, una sembianza ridente, una quasi docilità negli elementi e nel clima? A tanta dote di bellezza si aggiunge la fecondità della terra, il delicato sapore dell’erbe, e de’ frutti, l’abbondanza [p. VI càgna] della pescagione, la copia de’ fonti di limpidissime e saluberrime acque, la più perfetta qualità di materiali per gli edifizj sia de’ muri, o delle volte, o de’ lastrichi, la disposizione infine d’un sicurissimo porto, d’un nobilissimo cratere, di variati e tutti vaghissimi contorni. E quasi di tanti doni non fosse stata sazia la natura, violando incredibilmente le sue leggi stesse, e intervenendo gli ordini suoi, vedesi non per odio ed in pena, ma per colmo de’ suoi favori averle donato un Volcano per delizia, le fiammeggianti eruzioni per vago spettacolo, le mofete per divertimento degli uomini col solo rischio, o spavento de’ cani.

Ma siccome tralla numerosa, e diletta prole naturalmente i teneri genitori accendonsi di maggior passione verso quello, che tra tutti abbia più occupate le loro cure con lunghe, e non meritate malattie o sciagure, onde la di lui felice natural costituzione sia stata tormentata, e gran tempo afflitta; così crescer deve in noi la premura per questa nostra bellissima Patria, la quale per due secoli intieri fu senza suo demerito, senza suo fallo, per sola concatenazione del Fato poetico dell’Europa costante bersaglio dell’avversa fortuna. Spogliata de’ suoi naturali Re; esposta per superstiziosa ostinazione al rifiuto [p. VII càgna] d’ogni pace, e quindi alle perpetue ostilità de’ Maomettani, mentre restava sprovveduta di forze da difendersene, vide le sue marine tutte saccheggiate, bruciate, e gl’indifesi abitatori condotti in servitù. Vide le interiori Provincie assassinate da enormi squadre di fuorusciti; i popoli oppressi da’ Baroni; ne’ Baroni alimentate con insidioso artifizio di sciagurata politica le discordie, e i rancori; l’universalità tenuta con egual perfida arte nella povertà, nell’ignoranza, e nella superstizione; negletti i pubblici edifizj; attraversato il commercio; perseguitate le lettere; premiata, e tratta in trionfo l’ipocrisia chiericuta, e la non men nefanda sorella sua l’ipocrisia togata; un governo Viceregnale negligente, e tumultuario, sempre spinto da accecanti urgenze, non mai regolato da avveduta lontana provvidenza; ordini da aspettarsi tardi e da lontano da una Corte sconcertata; conto di condotta non mai reso con altro, che col farsi veder ritornato alla Corte; una catena dì calamità, seguela di questa orribile situazione; le più nobili antiche famiglie spogliate, e sbandite per sospetti di affezione ai loro antichi naturali Sovrani; la fede, e la memoria verso di essi tacciata ne’ popoli per fellonia; attribuito a caparbietà, e genio tumultuoso de’ popoli il naturale scoppio sotto [p. VIII càgna]sotto la rapacità, e crudeltà de’ governanti; il Santufficio tentato stabilire col corteggio de’ suoi orrori non per zelo di religione, ma per fraude di politica sospettosa; l’estravasazione di quasi tutta la moneta; il tosamento, o l’alterazione legale del valor di quella poca, che restò; desertati i campi, perpetue carestie nel più fecondo di tutti i suoli; forzato alla ribellione il più gajo, il più placido, il più sofferente di tutti i popoli; e per corona di tutto lasciato distruggere da crudelissima peste il popolo il più buono, ed il più innocente. Ecco l’orribile, e pur troppo verace ritratto e compendio di tutta la nostra brutta, e dolente istoria a cominciar dal 1502, e terminare al 1734. Chi sarà così insensato Cittadino, che non senta lacerarsi il cuore per interna pietà verso una Patria che fu tanto bella e che fu tanto immeritamente sventurata?

S’egli è poi vero, che allora rinasce e cresce altamente l’affetto verso quella prole, che sofferse disgrazie, quando vedesi, che le naturali forze superando oramai quelle de’ morbi, promettono ed ispirano dolce fiducia di perfetta guarigione, e ritorno alla pristina floridezza e beltà: qual non dovrà esser più, che presso tutte le nazioni, il patriotico zelo in noi, che da quaranta anni in quà ne veggiamo [p. IX càgna]cangiato in tutto il duro tenor della sorte? Ricuperati i suoi Sovrani benefici, e clementissimi; conclusa, e sostenuta la pace cogli Ottomanni; resa legge di stato eterna, e scritta in marmo l’abolizione del Santuffizio; espulsa l’ipocrisia; ristorato il commercio; fondate università, collegj, accademie; rifatte le pubbliche vie; riaperti gloriosamente i celebri porti, tutto annunziare la prosperità, la calma, l’opulenza, l’allegria. Sì. Abbiasi il consuolo di dirlo: in molte parti è già non solo riacquistata, ma sorpassata l’antica nostra felicità, in altre o non cediamo più, o siamo non lontani dal ricuperarla.

Solo pare, che in tanto progresso resti indietro, e resti irreparabilmente negletto, ed incapace più di ristoro, e di fortuna il nostro volgar dialetto Napoletano. Quello stesso dialetto Pugliese che primogenito tra gl’Italiani, nato ad esser quello della maggior Corte d’Italia, destinato ad esser l’organo de’ pensieri de’ più vivaci ingegni, sarebbe certamente ora la lingua generale d’Italia, se quella Felice Campania e quell’Apulia, che lo produssero, e l’allevarono si fossero sostenute quali prime, e non qual infime, e le più derelitte delle provincie Italiane.

La gente, che lo parla, avendo conservata per venti secoli, anche in mezzo [p. X càgna]alle sue tante battiture, una inestinguibile allegria, e quasi memore d’esser discesa dagli Osci, lo ha destinato e consecrato tutto alla lepidezza, e talvolta alla scurrile oscenità: e tanto si sono incarnate le idee colle voci, che pare ormai, che parlar Napoletano, e buffoneggiare sia una stessa cosa. Alle menti filosofiche è manifesto, che sì fatta connessione d’idee non è figlia della natura, ma della sola abitudine; e quando anche non fosse così, e fossevi nel suono del dialetto Napoletano qualche occulto difetto, che ne togliesse la dignità e la gravità, quel saggio detto di Orazio ridentem dicere verum quid vetat basterebbe a convincere, che anche in un dialetto scherzoso si possan pronunziare le più serie, e le più importanti verità.

Noi non disperiamo adunque ancora; e se l’amor della Patria non ci accieca, e ci trasporta, andiam dicendo tra noi, chi sa che un giorno il nostro dialetto non abbia ad inalzarsi alla più inaspettata fortuna; difendersi in esso le cause; pronunciarvisi i decreti; promulgarvisi le leggi; scriversi gli annali; e farsi in fine tutto quello, che al patriotico zelo de’ Veneziani sul loro niente più armonioso dialetto è riuscito di fare. Intanto non abbiam creduta inutile opera il cominciar fin da ora [p. XI càgna]a dare un saggio della nostra grammatica, un breve racconto della origine, e varia fortuna del nostro dialetto, e de’ migliori scrittori, che principalmente in poesia l’han maneggiato, e un breve vocabolario di quelle nostre voci, che più si discostano dal comune Italiano, e delle quali l’intelligenza riesce oscura non solo agli stranieri, ma talvolta agli stessi nostri concittadini. Abbiamo spesso acconpagnata la spiegazione di ciascuna voce e sostenutala coll’autorità, e colla citazione di qualche passo degli scrittori, che posson riguardarsi per Classici del nostro dialetto, ne’ quali la voce s’incontrava, e nella scelta di questi passi abbiamo usata quella maggior avvertenza e criterio, che da noi si è potuta, sforzandoci di prescegliere i più spiritosi, graziosi, allusivi detti, cosicchè venisse ad aversi anche per questa via un saggio delle, bellezze de’ nostri scrittori, pochissimo finora dal resto delle nazioni conosciuti.

Util cosa in fino ci è parsa raggiungere a ciascuna voce, o frase, o modo proverbiale che rapportiamo, qualche ricerca etimologica sull’origine di esse: nel che fare abbiamo usato quella moderazione e ritenutezza, che negli indagamenti etimologici facesse trasparire il buon senso, e ci liberasse dalla taccia di [p. XII càgna]visionarj, ed ostentatori d’una mal impiegata, e affastellata erudizione. Perciò avendo per fermo, che la maggior parte delle voci di origine non Italiana, nè Latina, che s’incontrano nel nostro dialetto siano a noi restate dagli Spagnuoli per effetto della lunga, e più recente loro dominazione, e che ben poche ce ne restino da’ Francesi, che prima degli Spagnuoli regnarono sù di noi, poche dall’Arabo, e pochissime poi dal Greco (malgrado la contraria opinione), giacché i Romani, e i popoli Settentrionali ne estinsero quasi intieramente il linguaggio, da queste sole lingue abbiamo tratte le etimologie, che ci son parse sicure, e sulle incerte abbiam preferito il silenzio. Che se mai fosse vero, come ci viene assicurato, che non solo dall’antico Osco, Etrusco, Sannitico, Lucano, ma anche dall’Etiopico, dal Malabarico, dal Tibetano, dal Pelvi, dal Cinese, e dal Giapponese molte nostre antiche voci chiarissimamente derivino, e che Chiaja, Sciatamone, Pizzofalcone, Trocchia, Chiunzo, e Panecuocolo sieno denominazioni antichissime, e quasi antidiluviane; noi, giacché per negligenza de’ nostri genitori, che ebbero cura della nostra educazione, non fummo avviati alla conoscenza di queste Antipodiche lingue in quell’età, che allo studio di essa si consagra, ed [p. XIII càgna]ora siam troppo vecchi per intraprenderlo, ci siamo astenuti dal farne la ricerca; e di questa impensata scoperta lasciamo ad altri l’onore.

Ecco quel, che in questo volume per pegno del nostro amore alla Patria ci siamo prefissi di pubblicare. Che se a taluno sembrerà, che in troppo breve, e bassa sfera di cognizioni ci siamo arrestati; primieramente risponderemo, che a ciascuno si dee saper buon grado, che faccia quanto può, non quanto vorrebbe. Ciascun di noi ha detto con Orazio cupidum, pater optime, vires deficiunt. Diremo inoltre, che la Grammatica è indubitatamente la prima base d’ogni sapere: che il cominciar dal ben costruir i fondamenti, se non è brillante e vistosa impresa, è saggia, è prudente, è regolare; e tanto da pregiarsi più, quanto è meno accompagnata dalla ricompensa della gloria, e dal plauso della sorpresa. Diremo infine, e questo basti per non aggiunger altro, che noi, checché ci si abbia a rimproverare, ci facciam gloria d’impiegar i sudori sù quel dialetto, che Niccolò Capasso coltivò, e che Pietro Metastasio non dispreggiò.

Quantunque non brama di celebrità, ma puro zelo di concorrere al pregio della Patria ci muova; pur vediamo esser forza il [p. XIV càgna]dare al Pubblico una tal quale notizia di chi siano gli autori di questo libro. Eravamo non più che cinque persone; ma la morte, che fura sempre i migliori, avendocene non è gran tempo rapito uno, siamo ridotti a quattro con poca apparenza di accrescimento di numero d’altri che si uniscano a noi. Non per pubblica autorità, ma di nostra spontanea volontà associatici in amichevole nodo abbiamo assunto il nome di Accademici Amici della Patria per quell’antichissimo dritto, che regna tra gli Italiani di potersi denominare Accademici di qualunque genere di studj, o d’arte liberale, tutti coloro, a cui venga in pensiere.

L’oscurità, in cui ci siam determinati a restare, non è un effetto di modestia; nè noi vorremmo far quì pompa d’una virtù, che confina colla sepolta inerzia. Nasce solo e da timidità, e da necessaria economia. Primieramente non sapendo quale accoglimento farà il Pubblico, ingombrato di prevenzioni contro il dialetto Napoletano, a questa nostra intrapresa, e temendone rossore, e mortificazione invece di applauso, non abbiamo avuto coraggio di nominarci, finche l’esito felice non ce lo ispiri. Inoltre, e questa è stata potentissima ragione, è ben noto l’abominevole abuso, che regna tra noi di [p. XV càgna]voler tutti aver in dono i libri dagli autori: abuso cresciuto a segno, che quello scrittore, che commette l’imprudenza di nominarsi, può ben esser certo, che donando perde un libro, niegandolo perde un amico. Or siccome la nostra società non ha altro fondo a continuar l’edizioni de’ più gustosi nostri scrittori divenuti rari, e di molti inediti, che ci siam prefissi di pubblicare, se non che la speranza d’una copiosa vendita, era necessario tenerci nell’oscurità per poter negare a tutti d’esser gli autori, e così salvare gli esemplari, e gli amici. Oltreacchè dalla sola copiosa, o scarsa vendita si può ritrarre l’imparziale e sincero giudizio del Pubblico, e non più dalle lodi, da’ complimenti, o dalle importune richieste di chi lo brami donato. Ed è cosa sicura, che quella edizione di libro, che siasi tutta venduta, avrebbe potuto egualmente bene esser tutta donata, come per contrario non è mai sicuro, che quella, che si è tutta donata, si sarebbe trovata tutta a vendere, ed a smaltire.